Il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping sapeva. Sapeva dell’emergenza coronavirus fin dal 7 gennaio. E sono trascorsi 13 giorni fino al primo intervento ufficiale. Si complica così il quadro della gestione della crisi legata al coronavirus dopo le polemiche, alimentate soprattutto sui social.
In un discorso del 3 febbraio scorso il presidente cinese affermava di aver dato ordini sul contenimento dell’epidemia di Covid-19 già il 7 gennaio scorso. Il testo, pubblicato da Qiushi, la più importante rivista del Partito comunista cinese, dimostra che Xi durante una riunione del Comitato permanente dell’ufficio politico del Partito Comunista Cinese ai primi di gennaio emise «ordini per lavorare al fine di prevenire e controllare la diffusione del nuovo coronavirus». Finora la narrazione ufficiale datava al 20 gennaio il primo intervento di Xi sulla gestione della crisi.
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Il primo caso di «polmonite misteriosa» a Wuhan era stato scoperto a inizio dicembre e per giorni e settimane la Cina aveva taciuto. La prima morte causata dal nuovo coronavirus è stata registrata il 9 gennaio. Fino al 20 gennaio le autorità di Pechino parlavano di «45 casi», sempre di «infezione misteriosa». Per giorni Xi non aveva parlato pubblicamente della crisi ed era sembrato voler prendere le distanze dalle critiche ricevute dalla Cina per gli iniziali ritardi nella gestione dei contagi.
Il 20 gennaio la Cina ammise la gravità dello scoppio del coronavirus: era già epidemia, con 4 morti e oltre 200 contagiati, ma la Commissione sanitaria nazionale assicurava ancora che «era prevenibile e contenibile». Il 21 gennaio il Partito-Stato disse ai quadri delle lontane province cinesi: «Chi nascondesse informazioni sul virus sarebbe punito severamente e inchiodato per l’eternità alla colonna dell’infamia». Il professor Zhong Nansnhan, l’esperto che aveva lavorato ai tempi della Sars, dichiarò che il misterioso coronavirus partito dal mercato del pesce e degli animali di Wuhan a fine dicembre «salta anche da persona a persona».
Ancora il 23 gennaio, con 25 morti ufficiali, la tv statale non parlava della situazione già tragica di Wuhan, preferiva aprire il tg con le immagini di Xi che faceva gli auguri di buon Capodanno lunare al popolo cinese. Ma dal 24 gennaio, Wuhan veniva messa in quarantena: 11 milioni di abitanti chiusi in casa.
Il 28 gennaio Xi ricevette a Pechino il capo dell’Organizzazione mondiale per la sanità e proclamò: «L’epidemia è un demone, noi non permetteremo a un demone di restare nascosto. Fin dall’inizio il governo cinese ha dato prova di apertura e trasparenza per diffondere nel tempo più breve le informazioni sul virus». Ma quale inizio? La rivista del partito comunista rivela che Xi Jinping aveva dato le prime istruzioni il 7 gennaio. Dunque sapeva già allora, 13 giorni prima dell’allarme generale.
La diffusione del discorso del 3 febbraio potrebbe essere un tentativo di Xi di mostrarsi più presente e in controllo della situazione, ma allo stesso tempo rischia di dimostrare che per diversi giorni, tra il 7 e il 20 gennaio, il governo cinese non è intervenuto con la necessaria efficacia per fermare la diffusione del virus, sottovalutandone la pericolosità.
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Finora sono stati confermati 68.500 casi di nuovo coronavirus e sono morte 1.665 persone. Gran parte dei casi di contagio e delle morti sono avvenute in Cina e in particolare nella provincia di Hubei, dove si sono sviluppati i primi casi. Pechino ha deciso anche di inasprire le restrizioni per combattere l’epidemia nell’Hubei: a sessanta milioni di persone è stato chiesto di non uscire da casa (salvo emergenze) e l’uso di auto private è stato vietato a tempo indeterminato. Solo una persona per ogni famiglia potrà uscire, ogni tre giorni, per fare la spesa.