Ci sono delle sorprendenti analogie che legano la storia della musica jazz e del cinema, anche se i punti di contatto sono stati spesso episodici o casuali. Sono due grandi fenomeni che in meno di cento anni hanno compiuto sul piano evolutivo un’accelerazione che non ha paragoni con le altre discipline, il cui cammino è apprezzabile su istanze molto più lunghe, stimate a secoli se non a millenni. Se il jazz ha percorso quanto la musica classica ha fatto in cinque secoli, il cinema ha addirittura percorso quasi mille anni di storia della pittura coniugandosi spesso al teatro e alla letteratura. Entrambe le arti nascono dalla sintesi di modelli diversi con i loro svariati codici espressivi, definendosi anche come arti collettive. Hanno saputo conciliare le pratiche basse con quelle alte della cultura, l’animo popolare, la crescita avanguardista, l’aspetto mediologico e sono stati influenzati e in parte hanno influenzato le principali svolte epocali di tutto il XX secolo.
Fallen Angel – Un angelo è caduto di Otto Preminger (All the things you are, J. Kern, Chet Baker Quartet). Lei è una bellissima cassiera e lui vorrebbe sposarla, ma non ha il becco di un quattrino, e neppure un mestiere. Allora pensa di convolare a nozze con una ricca ereditiera, per poi divorziare e tornare dalla ragazza con un congruo assegno. Detti fatti, già la prima notte di matrimonio il giovanotto molla il talamo nuziale, ma trova l’ambita fanciulla con un altro. Il mattino dopo, addirittura, qualcuno la trova morta ammazzata. E chi viene incolpato di omicidio? Il fedifrago, naturalmente. Però c’è di mezzo un braccialetto della defunta, che lui riconosce. È la pista che gli consente di risalire all’assassino. Scagionato, torna dall’ereditiera che peraltro non è affatto male. Plot di notevole tensione, e atmosfera noir resa ancora più suggestiva dalla tromba di Chet Baker. Suono inconfondibile, levità di fraseggio e, insieme, timbro lacerante: Chet Baker, come è noto, è diventato universalmente famoso grazie al quartetto guidato da Jerry Mulligan. Nei primi anni Sessanta alcuni loro pezzi erano inseriti persino nel Juke-box. Senza contare poi Why do I love you? (J. Kern – O. Hammerstein II) e il Charlie Parker Sextet: in gioco, nel film di Preminger, anche il sax, quanto a dire un gigante del jazz moderno. Certo qui è, per così dire, in posizione subordinata rispetto ad altri musicisti, nessuno dei quali ha mai raggiunto la sua statura. E tuttavia la sua veloce irruzione è folgorante. The song is you, con l’onnipresente Oscar Peterson al piano, è un brano veloce, pulsante e arioso, bizzarro per un thrilling. Rara in genere nel jazz la presenza di una chitarra (qui suonata da Herb Ellis), strumento che innesta sonorità non consuete e levigatezza di fraseggio mentre Hellis e Peterson dialogano beatamente.
Touch Song Trilogy – Amici complici amanti di Paul Bogart (‘S Wonderful, G. & I. Gershwin, Count Basie and his Orchestra Joe Williams). Essere omosessuale, e per giunta ebreo, è tutt’altro che allegro perfino nella grande, cosmopolita, e forse non così permissiva New York. La sua vita è in perenne rotta di collisione con la sua famiglia (che rifiuta la sua “diversità”), con gli amanti, e con il ragazzino di cui ha ottenuto l’adozione. Eppure, ha raggiunto i vertici del successo a Broadway, esibendosi come travestito. Comunque si consola con l’Orchestra di Count Basie e con la voce di Joe Williams. Vecchio jazz sempre verde e d’alta classe: grande ritmo, grande dispiegamento di ottoni e di ance, voce solare e ammiccante. Insomma, un brano tipico della Swing-Era. Can’t we be friends (K. Swift – P. James) e Anita O’Day sono squisitamente in linea con i sapori jazzisti classici del film di Bogart, producendosi in un ritmo swingato e una voce duttile e squillante. E in questa sorta di paradigma del jazz più esemplare (e magari un po’ datato), quale sembra essere la colonna sonora del film, non poteva mancare l’immensa Billy holiday nel celebre But not for me di Gershwin. Una voce capace di richiamare emozioni, risonanze lontane, pulsioni sommerse, penetrante, struggente, segnata da un carico esistenziale che affiora anche in brani di squisito intrattenimento come questo.
Le relazioni pericolose di Stephen Frears (No problem, J. Marray, Art Blakey’s Jazz Messengers). Choderlos de Laclos, che ha scritto il romanzo un paio di secoli fa, forse oggi rimarrebbe spiazzato: nessuno degli spettatori del film di Frears si è scandalizzato della vendetta ordita da una infingarda Glenn Close – nelle vesti di una marchesa settecentesca – contro il suo ex-amante, promesso sposo a una fresca fanciulla. John Malkovich, istigato dalla donna, seduce la verginella, con grande dolore della virtuosa Michelle Pfeiffer, e poi muore in duello. Roba da soap opera, se non fosse per lo stile raffinato e pungente del regista inglese, e per una colonna sonora di sofisticati impasti jazzistici firmata dai Jazz Messengers di Art Blakey. Gruppo celeberrimo (la cui formazione è stata più volte rimpastata), cui il jazz dell’era matura deve certo qualcosa. Art Blakey era un batterista di quelli che suonavano “con” lo strumento, e non semplicemente “su” di esso. Lo usava come veicolo di un linguaggio musicale e non come puro sostegno ritmico.
Les Tricheurs di Marcel Carné (S. Getz – R. Eldridge, Stan Gezt Sextet). Bloccati da un codice giovanile di gruppo, rigido e “antiborghese”, non riescono a comunicare, malgrado si sentano attratti reciprocamente. Lesi si butta nel letto di un altro, lui la snobba con enfasi eccessiva. Finisce male: lei, disperata, si schianta durante una bruciante corsa in auto. Quel che resta di questo tardo film di Carné è una strepitosa colonna sonora: rhythm and blues, be-bop e cool jazz a profusione. Grandiosi, in questo brano, il sax tenore di Stan Getz, la tromba di Roy Eldridge, e anche il piano di Oscar Peterson, virtuoso nel pianoforte e con una padronanza tecnica che prevaricava spesso la “sostanza” musicale, ma certo esibiva una levità e una scorrevolezza di fraseggio sempre piacevoli. C’è poi Clo’s blues (C. Hawkins) e il Coleman Hawkins Quintet: altro pezzo forte, insinuante, sostenuto dal tenor sax di Coleman Hawkins, dal pianoforte di Oscar Peterson e dal sofisticato contrabbasso di Ray Brown. Un blues dalla cadenza graffiante, carico di energia, incastonato alla perfezione nell’atmosfera (melo)drammatica del film di Carné. Infine, Mic’s jump (D. Gillespie) e il Dizzy Gillespie Quintet, velocissimo pezzo bop in cui la tromba e il basso sembrano rincorrersi. La incredibile duttilità del suono di Dizzy era dovuta al suo enorme talento, non certo alla strana forma del suo strumento (ricurvo verso l’alto), che in realtà era solo un vezzo.
French Kiss di Lawrence Kasdan (I love Paris, C. Porter, Ella Fitzgerald). Charlie arriva in Francia per lavoro e si innamora di una stupenda parigina. Il guaio è sta mettendo su casa in patria con Kate. Sconvolta, lei prende un aereo, vincendo la paura di volare, e arriva a Parigi in cerca del promesso sposo. Gliene capitano di tutti i colori, compreso l’incontro con Luc, occasionale compagno di viaggio, affascinante, sbarellato piccolo truffatore, del quale, alla fine, si innamora. Scoprendo poi che è un rampollo di buona famiglia. Trattandosi di Parigi, non poteva mancare nella colonna sonora un classico come I love Paris di Cole Porter, cantato da ella Fitzgerald. Un pezzo arcinoto, che, forse, proprio in quanto non adatto allo sfruttamento pieno della sua incredibile estensione vocale, rivela maggiormente la grande della più celebre cantante della storia del jazz.
55 giorni a Pechino di Nicholas Ray (Tiomkin, Bill Evans and C. Ogerman Orchestra). Storica rivolta dei Boxer a Pechino, negli anni Venti. La comunità straniera è sotto pressione e costretta a difendersi. Ci sono anche i marines, il cui comandante si innamora di una splendida aristocratica, che però muore durante una sparatoria. I marines, naturalmente, riescono a lasciare Pechino indenni. Il comandante, ancorché lacerato dal dolore, porta con sé negli Usa la figlia di un commilitone caduto durante i cinquantacinque giorni di battaglia. Intenso e spettacolare film di Nicholas Ray, con un curioso pezzo d’orchestra come brano portante, di impianto ritmico sudamericano e con venature orientaleggianti. Il pianoforte di Bill Evans, sempre tonico, risulta un po’ annegato in un tripudio di strumenti e percussioni.
I vampiri del sesso di Edouard Molinaro (Ne chuchote pas, A. Blakey – B. Golson, Art Blakey’s Jazz Messengers). Triste storia di un maquereau e ragazze sfruttate. La protagonista in questo film di Molinaro peraltro sembra particolarmente sfortunata: brava ragazza, essenzialmente, incappa nelle grinfie di un livido figuro che non fa scrupoli nel costringerla a prostituirsi. Fortuna che la fanciulla ha un prode fidanzato, che alla fine la toglie dai guai. Il film non è granché, ma non importa: i Jazz Messengers di Art Blakey si producono in pezzi di grande suggestione. Gli stessi titoli di testa sono un curioso brano, un valzer forse in omaggio al folklore parigino che però non rinnega né il contrappunto né le improvvisazioni discorsive proprie del jazz più autentico. C’è quindi Blues for Vava, altro raffinato brano in cui il sax di Benny Golson la fa da padrone, come a voler nobilitare definitivamente un film di basso profilo. Una cifra cool sofisticata e misurata, ma anche trascinante e rovente, cosa del resto squisitamente tipica del blues.
Bird di Clint Eastwood (April in Paris, V. Duke – E. Y. Harburg – arr. Carroll, Charlie Parker Quartet and Strings). Un calvario la vita di Charlie Parker, morto nel 1955, a 35 anni, tra miseria e droga. Clint Eastwood, grazie anche alla bravura di Forest Whitaker, mette in scena con passione e con suprema delicatezza la dolorosa, bruciante, esperienza esistenziale di un musicista che rappresenta, per così dire, la “genesi” del jazz moderno. April in Paris, con accompagnamento d’archi, è già una rivoluzione nel suono del sax. Charlie Parker (insieme con Dizzy Gillespie) è stato l’“inventore” del be-bop, un concetto di sonorità che ha rappresentato la prima vera rottura con il jazz manierato dei primi anni Trenta e Quaranta.
‘Round Midnight di Bertrand Tavernier (T. Monk – B. Hanighen – C. Williams, Bobby McFerrin). Film affascinante, intenso, girato da un cineasta jazzofilo, protagonista Dexter Gordon, straordinario sax tenore. Un vecchio musicista, che ritrova – ormai vicino alla fine – la vena dei tempi migliori, grazie soprattutto all’amicizia e alla dedizione di un giovane squattrinato, affascinato dalla sua musica tanto da trascorrere intere nottate ad ascoltarlo sotto le finestre del locale parigino in cui suona. Un’ode appassionata e struggente al jazz e ai suoi interpreti. Gordon è scomparso qualche tempo dopo aver girato questa storia dal sapore autobiografico. ‘Round Midnight, come è noto, è anche un celebre pezzo di Thelonious Monk. Una delle vette, quest’ultimo, del jazz più avanzato, raffinato, profondo, e insieme intriso di un linguaggio straordinariamente corposo. Ed eccolo il sax in un altro classico di Monk, Rhythm-a-ning, perfettamente contrappuntato dalla tromba di Freddie Hubbard. Se nel film di Tavernier, Gordon non recita propriamente la sua autobiografia di musicista nomade, certo incarna in un certo modo il mito e, insieme, la realtà del jazzista afro-americano “maudit”, intrappolato nella propria arte, incompreso (specie in patria), e spesso morto in solitudine e povero in canna.
Ascensore per il patibolo di Louis Malle (Florence sur les Champs-Èlysées, Miles Davis Quintet). Il protagonista rimane incastrato in un ascensore dopo aver ucciso il marito della sua amante. Fa di tutto per liberarsi, ma ci riesce solo all’alba. Nel frattempo due balordi gli anno rubato la macchina e hanno ammazzato un turista. Viene accusato e non può scagionarsi da un delitto non commesso senza rivelare quello vero. Gli viene in aiuto l’amante complice, ma la polizia scopre tutto. Per i due c’è il patibolo. Primo sorprendente lungometraggio del compianto Louis Malle, celebre anche per l’eccezionale colonna sonora. La leggenda vuole che Miles Davis l’abbia incisa in una sola notte guardando il film per la prima volta e suonando di getto (tanto per tenere caldo il mito dell’improvvisazione). In realtà lo aveva già visto da un paio di giorni. Che importa: la sua tromba colma lo spazio, lo risucchia, nelle sue sonorità irraggiungibili, e riesce a evocare emozioni lancinanti. I titoli di testa sono l’irresistibile suggestione di un suono che lacera, quasi, l’atmosfera noir. Da notare che insieme con la inarrivabile tromba di Davis c’è la batteria di Kenny Clarke, e si sente.