Ipocriti. Siamo un Paese di ipocriti. E di opportunisti. Abbiamo finalmente la tanto agognata data per la riapertura dei cinema e dei teatri: il 15 giugno. Dopo tre mesi di blocco totale. Tre mesi che sono serviti soprattutto a rimarcare quotidianamente e incessantemente quanto sia bella la retorica spicciola e quanto l’esperienza della sala – che si tratti di cinema o spettacolo dal vivo poco importa – sia improvvisamente divenuta imprescindibile e necessaria, anche al netto di quanto l’offerta delle piattaforme streaming e on demand si riveli sempre più concorrenziale nei contenuti ed essenziale per le distribuzioni cinematografiche in un momento drammatico e imprevedibile come quello attuale. Eppure, il 10 marzo scorso, 168 decessi costituivano un dramma ingestibile e un’emergenza globale. Il 16 maggio, invece, 145 decessi vengono liquidati come un problema ordinario con il quale convivere.
La riapertura è frutto dell’umore popolare, del sentimento delle opposizioni e dei gruppi di pressione, degli appassionati (e non sempre lucidi) pareri delle associazioni di categoria ma anche del malcontento di una minoranza (?) molto rumorosa che ha flagellato a lungo l’operato del Governo e il già travagliatissimo dibattito tra gli addetti ai lavori. Quello stesso brusio saccente e moralista che mette bocca a sproposito su tutto ma il più delle volte ignora a piè pari le condizioni reali e concrete di certi settori produttivi. A partire da quelli che riguardano spettacolo e intrattenimento. Ma, dopo due mesi buoni di reclusione domiciliare, cosa è cambiato? Non c’è vaccino né terapie specifiche all’orizzonte, le mascherine continuano a latitare, tamponi e altri dispositivi sembrano non essere un fenomeno capillare. La sensazione di incertezza si fa ancora più opprimente quando si parla di sussidi e ammortizzatori sociali che, con la riapertura, rischiano di essere ancora più esigui. Il bilancio fin qui è davvero misero. Ma soprattutto – non prendiamoci in giro – non c’è mercato, non c’è turismo, non c’è ripresa. Era una pandemia globale e non una banale influenza. Era, perché a quanto pare non lo è più o, quanto meno, ne va ridimensionata la portata alla luce della ripartenza.
Riaprire sì. Va bene gli entusiasmi. Non possiamo rimanere isolati dal resto dell’Europa. Ma, ritornando realisti, andiamo a fare i conti in tasca agli esercenti. Salati affitti da pagare, ingenti spese di sanificazione, ingressi ridotti e contingentati, distanziamento sociale. Come leitmotiv non c’è affatto male. Per quali incassi? Trentamila morti e la peggiore recessione dal dopoguerra. C’è proprio da gioire. Andrà tutto bene? A quanto pare non proprio. E poteva/potrebbe andare peggio. E i cinema? E i teatri? Siamo tutti virtuosi con la tasca degli altri. Al cinema in estate, in Italia, non c’è mai andato nessuno, specie nei monosala senza aria condizionata e con le poltrone in velluto. Le uscite da grandi incassi in gran parte rinviate e sedute a scacchiera. Come se i ricavi di questa prodigiosa industria nazionale fossero già prima, a parte le uscite natalizie, in grado di far sopravvivere le sale. Basti pensare a quelli di fine febbraio o dei primi di marzo con cifre davvero pietose e imbarazzanti. Lo spettacolo dal vivo, dal canto suo, espone a rischi concreti gli stessi artisti sul palcoscenico, i professori d’orchestra nel golfo mistico, i tecnici e gli attrezzisti dietro le quinte.
Tornerà il pubblico in sala? Impossibile sbilanciarsi. Certo, il pronostico deve essere cauto ma è sconfortante se si considerano due fattori: il periodo storico e il periodo dell’anno. Se, di regola, la stagione cinematografica italiana non va oltre metà maggio – per poi riprendere a regime in autunno – stavolta si dovrà fare i conti con il controllo della temperatura, con guanti e mascherine. Gli spettacoli saranno probabilmente dilatati sull’intero orario di apertura. Niente più programmazione costipata, ma almeno mezz’ora tra una proiezione e l’altra. Ove possibile, saranno sfruttate e adattate le uscite laterali d’emergenza, per non fare incrociare i flussi che saranno limitati a un determinato numero di persone, variabile presumibilmente in base alla capacità della struttura. In ogni caso, gli spettacoli all’aperto potranno prevedere non più di 1000 spettatori mentre quelli al chiuso non più di 250. Tornerà il vecchio ruolo della maschera, utilizzata un po’ come avviene a teatro: presenza (semi) fissa in sala e controllo costante.
Non sarà semplice, ancora ignari come siamo delle esatte disposizioni dei protocolli. C’è il progetto Moviement Village… Eppure i distributori hanno confermato che, senza protocolli gestionalmente sopportabili in base a valutazioni di impatto economico, non se ne parla proprio di uscite appetibili. Protocolli giustamente da applicare ma che comportano naturalmente oneri che si prevedono gravosi. Dopo oltre tre mesi di chiusura e spese fisse continue, gli esercenti non potranno riaprire aggravando i bilanci di un’ulteriore e considerevole perdita, che si tradurrebbe in una crisi drammatica irreversibile. Dall’insieme di queste variabili discenderà una scelta volontaria ponderata. Aprire poi i teatri, quando le stagioni dovrebbero essere già concluse, non è proprio il massimo. E ci si augura che il settore non si deprima qualora il pubblico in sala non dovesse essere dei più numerosi. È una fase delicata ma necessaria. Perché, prima o poi, ci vorrà del tempo per tornare “a fidarsi” della sala e degli spettatori che siedono accanto. Ma gli assembramenti, le biglietterie online, i tornelli e il deflusso agli ingressi? E chi assicura l’incolumità del pubblico e dei lavoratori, al di là di ogni ragionevole dubbio? Le stesse Istituzioni che invocano riaperture di enti indebitati fino al midollo o di realtà che già prima tiravano a campare? Su chi grava la responsabilità nei confronti dei consumatori e chi vigila concretamente sulle singole realtà e sui relativi adempimenti? Avevamo l’industria d’intrattenimento più florida del globo e non ce ne eravamo resi conto prima del lockdown?
Quanta ipocrisia, quanta impreparazione. L’alibi è pronto: la riapertura c’è, le condizioni ancora no. Allora la faccenda viene rimessa al rischio individuale e alla buona volontà. La riapertura è una possibilità, non un obbligo. Una possibilità per coloro i quali valuteranno le condizioni come propizie. Insomma, lacrime e sangue. E allora, date le premesse, non era più onesta intellettualmente l’immunità di gregge paventata da Boris Johnson? Il problema permane, con la differenza che adesso siamo costretti a conviverci, per non pagare un dazio ancora più amaro. Con le frontiere aperte, la libera circolazione, alcun obbligo di quarantena e il rischio rebound dall’Europa che incombe. Insomma, oneri tanti e certezza alcuna. Ci rimettiamo fiduciosi allo stesso buon senso, alla stessa prudenza e al medesimo decentramento che ha già fallito poco tempo fa in più di una regione. Regioni che, in alcuni casi, continuano a essere rosse e sovraesposte al rischio contagio. La retorica del Premier e la sua totale retromarcia si stagliano contro un clima d’impazienza e di sopravvalutazione di sé stessi e degli altri che portano oggi a non voler calcolare né rischi né imprevisti. O, meglio, a non volersi arrendere che non c’è rimedio e il conto continuerà a essere salato. E forse, con la riapertura, lo sarà ancora di più. Forse sì. O forse no. Le chiacchiere e i buoni propositi sono belli ma la realtà, dispiace, è un’altra cosa. Speriamo ci vada bene, ché altrimenti ci sarà molto poco da gioire. Il motto del momento raccomanda prudenza e, soprattutto, virtù. Ma qui il “fattore C” inizia a essere determinante.