La pandemia lo ha reso indispensabile e anche dopo il Covid difficilmente uscirà dalle nostre vite. Lo smart working, o lavoro agile, per i Paesi mediterranei è stato una scoperta, mentre al Nord era una pratica già diffusa. Lavoro subordinato strutturato per obiettivi, senza vincoli orari o spaziali: può essere un’opportunità, ma richiede concertazione e aggiornamenti normativi. Prima dell’emergenza coronavirus in Italia lavorava da casa in modo stabile o occasionale solo il 5% dei dipendenti, in Svezia e nei Paesi Bassi il 37%. E ora che la pandemia da Covid-19 ha imposto una netta accelerazione ai processi di innovazione nell’ambito del lavoro a distanza da noi prende forma una declinazione specifica: il south working.
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Negli ultimi tempi si parla molto di south working e non solo perché studenti, neolaureati e lavoratori a causa dell’emergenza Covid-19 sono tornati nei loro paesi e città di origine al Sud d’Italia lavorando da remoto, ma perché intorno a questa idea sono nate proposte e si iniziano a creare progetti per renderla concreta e durevole nel tempo. Quello che poteva essere un fenomeno momentaneo legato appunto alla fine del lockdown si sta prolungando anche perché gli esami all’università sono a distanza, il lavoro negli uffici continua ad essere in smart working e dunque che senso ha andare via da casa per tornare in posti dove lavorare/studiare comunque da dentro casa? Il risultato è la desertificazione e la crisi economica di quelle città che sui “fuori sede” hanno costruito un’economia.
Secondo una stima de Il Sole-24Ore in 20 anni Milano ha guadagnato circa 100mila residenti provenienti da altre regioni d’Italia, soprattutto dal Mezzogiorno, e una parte consistente di questi, con la pandemia, è rientrata nella propria terra, continuando a lavorare online. Le conseguenze su valore degli immobili, entrate dei servizi pubblici e futuro delle attività private nate intorno agli uffici sono facilmente intuibili. Così la metropoli italiana che ha fatto dell’innovazione la sua bandiera prova a correre ai ripari, facendo un passo indietro. Da settembre la metà dei 7mila dipendenti del Comune di Milano che dal lockdown lavorano in remoto dovranno rientrare fisicamente al loro posto.
Ma se al Nord si piange per questo fenomeno, al Sud si sorride: i cervelli in fuga sono rientrati e possono diventare un motore economico importante. Intanto onore al merito ad un gruppo di giovani di Palermo. Sono stati loro a etichettare questo fenomeno con il nome di ‘south working’, lavorare da sud, ma anche studiare. Hanno ideato una organizzazione no-profit che è un progetto di Global Shapers Palermo Hub, per studiare il fenomeno dello smart working localizzato in una sede diversa da quella del datore di lavoro, in particolare dal Sud Italia, con i suoi pro e contro, ma anche aiutare lavoratori che vogliano intraprendere questa modalità di lavoro e formulare delle proposte di policy in questo campo. L’obiettivo di lungo termine, dicono, è quello di stimolare l’economia del Sud, aumentare la coesione territoriale tra le varie regioni d’Italia e d’Europa e creare un terreno fertile per le innovazioni e la crescita al Sud.
Che il lavoro tradizionale e quello smart si contamineranno è certo, ma le forme e le condizioni a cui questo avverrà saranno tutte da vedere. Così come gli effetti che questa improvvisa innovazione produrrà a lungo termine sui tessuti urbani, i modelli di impresa, le forme di organizzazione sindacale e le relazioni sociali. E non riguarda solo l’Italia: The Economist a maggio ha pubblicato un’inchiesta, “Working life has entered a new era”, in cui si parlava di BC (before coronavirus) e AD (after domestication). Secondo l’autore, non sarà facile tornare nell’era BC: i datori di lavoro risparmiano sui costi, i lavoratori apprezzano il famoso agognato “work life balance”, l’ equilibrio vita privata/lavoro.