Il primo ministro britannico Boris Johnson darà alla Unione europea 38 giorni di tempo per arrivare ad un accordo sul dopo Brexit, oppure abbandonerà il negoziato con un «no deal», un divorzio senza accordi che avrà pesanti conseguenze, a partire dal ritorno di dazi e dogane. La Gran Bretagna ha lasciato l’Unione europea lo scorso 31 gennaio, ma è scattato un periodo di transizione che doveva portare entro fine dell’anno ad un trattato di libero scambio.
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Ma adesso Boris dice che il tempo è scaduto: se non si conclude tutto entro il 15 ottobre, data del prossimo vertice europeo, allora è inutile andare avanti. E per la Gran Bretagna, sostiene, non è poi così male: il «no deal» sarà «un buon esito» grazie al quale la Gran Bretagna potrà «prosperare potentemente». Senza un accordo, il nuovo anno porterà tariffe e altre barriere economiche tra il Regno Unito e il blocco europeo, il suo più grande partner commerciale. Ma il premier britannico non sembra preoccuparsene più di tanto: «Non faremo compromessi sui fondamentali di ciò che significa essere un Paese indipendente».
I motivi del contendere sono sostanzialmente due: i diritti di pesca e gli aiuti di Stato. I britannici non vogliono più dare libero accesso ai pescherecci europei nelle proprie acque territoriali e chiedono mano libera per le sovvenzioni pubbliche alle aziende. È quest’ultimo punto quello fondamentale: Londra mira a creare dei campioni tecnologici grazie a una politica di sostegno statale (come fanno già America e Cina) e non vuole soffrire barriere imposte dall’Europa. Con queste premesse appare, dunque, difficile che si raggiunga un accordo.