A lungo caposervizio agli spettacoli al quotidiano “La Sicilia”, il giornalista Giuseppe Attardi oggi è firma autorevole di Pickline e Sicilian Post. Qualche mese fa ha dato alle stampe il bel libro “Alfio Antico. Il dio tamburo” (Arcana Edizioni, p. 174, 16 euro), in cui racconta – per dirla con le parole del sottotitolo – la “storia di un pastore entrato nell’olimpo della musica”. In effetti, la vita di questo musicista siciliano è unica e straordinaria. Come unico e straordinario è il suo talento, che l’ha portato a collaborare, tra i tanti, con Eugenio Bennato, Fabrizio De André e Lucio Dalla, a calcare le scene teatrali al fianco di Maurizio Scaparro e Peppe Barra, ad incidere numerosi album e colonne sonore. Ma quanta fatica prima di raggiungere il successo. Un riconoscimento che, probabilmente, non è stato però commisurato al suo reale spessore artistico.
Cresciuto in fretta per aiutare la famiglia e il padre malato, il pastore bambino Alfio Antico ha dovuto affrontare un’infanzia complicata. La sua giovinezza è trascorsa sulle montagne, tra il freddo, le pecore, la fatica e un tamburo come unico compagno per esorcizzare le paure. Giuseppe Attardi ha saputo raccontare tutto questo con misura e passione.
Con una scrittura piacevolissima ci ha accompagnati tra greggi e natura selvaggia, ci ha fatto riascoltare il ta-ta-boum del Don Raffaé di Faber, ci ha raccontato la vita di un uomo che parrebbe quella di uno di quei vinti tanto cari a Verga. Ma vinto, Alfio Antico, certamente non è.
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Soddisfatto di come è stato accolto il libro?
“Dal punto di vista delle vendite sta andando bene: è stato al secondo posto nelle classifiche dei libri di musica su Ibs ed è entrato nella top 100 di Amazon. Mi ha sorpreso il dato sulla versione Kindle, che, se da una parte indica una evoluzione digitale del lettori, dall’altra conferma la crisi della versione cartacea e delle librerie. Il mio obiettivo, nello scrivere questo libro, però non era certamente quello di scalare le classifiche di vendita. Volevo far conoscere a un pubblico più ampio un artista che merita più attenzione. Anche in tal senso ho registrato qualche risultato. Ad esempio, in questi giorni su Alfio Antico si sta girando un docu-film. Mi sarei atteso più interesse sulla sua storia umana e artistica da parte dei media tradizionali. Che, invece, non c’è stato. Questo resta un cruccio. Oggi si preferisce parlare dei capelli biondi di Anna Tatangelo, del cagnolino di Tiziano Ferro o delle “punturine” di Arisa”.
Nonostante le difficoltà legate al Covid, in questi mesi avete affrontato una sorta di mini tour musical-letterario per presentarlo. Qualche ricordo che ti porterai dietro?
“I tanti giovani che sono accorsi al primo appuntamento all’Alkantara Fest, a conferma di un artista Antico di nome, moderno di fatto. E certamente lo storico incontro al quale ho assistito al Dedalo Festival di Caltabellotta fra Alfio Antico e lo scultore Salvatore Rizzuti: due artisti con una adolescenza in comune tra monti e grotte a pascolare pecore. L’abbraccio tra i due davanti alla statua della Madre Terra è stato un momento emozionante per tutti”.
I vostri cammini come si sono incrociati?
“Fu Carmen Consoli a farci conoscere. Ovviamente, sapevo di Alfio, delle sue collaborazioni con Eugenio Bennato, Fabrizio De André, Vinicio Capossela, ma lo consideravo un bravo percussionista e nulla di più. Seguendo la lavorazione dell’album “Guten Morgen”, che fu prodotto dalla “cantantessa”, cominciai a entrare nel suo mondo, a scoprire il suo retroterra culturale. E una storia umana dura, drammatica, commovente: una infanzia difficile, il padre malato, il lavoro da pastore sin dall’età di 9 anni, l’emigrazione prima in Germania e poi a Firenze, fino all’incontro con Eugenio Bennato che gli cambiò la vita”.
E l’idea di scrivere un libro su di lui com’è maturata?
“Dopo l’album “Antico”, che realizzò con Colapesce, siamo tornati a frequentarci in occasione delle registrazioni del disco “Trema la terra”. Una sera, con il suo fare timido, mi chiese: “Mi piacerebbe se tu scrivessi un libro su di me”. Molto probabilmente perché io mi ero accostato al suo mondo senza la puzza sotto il naso dell’intellettuale. Io, tuttavia, ero e sono poco propenso a scrivere libri. Non gli diedi una risposta immediata. Ci pensai a lungo, tanto che Alfio mi ripeté la richiesta altre due volte. Cominciai a raccogliere il materiale, a farmi raccontare la sua storia. Ed era, è una storia che era un dovere fare conoscere a tutti. Chi leggerà il libro, lo comprenderà: è piena di colpi di scena, di momenti drammatici ed emozionanti”.
Non è un romanzo, non è una biografia e neanche una biografia romanzata o un saggio. Per portarci nel suo mondo hai scelto una forma narrativa ibrida, arricchendola con le testimonianze di chi l’ha conosciuto e versi in siciliano dello stesso protagonista. Quanto è stato difficile mantenere questi aspetti in equilibrio?
“È quasi una fiaba con personaggi come Panza Ricca, Re, Carrubba, d’altronde Alfio è il Mastro Geppetto della World music. Soprattutto ho cercato di usare un linguaggio musicale che imitasse quello di Alfio. Un linguaggio sonoro, di rumori, richiami animaleschi, che dettasse il ritmo. Trovato questo, è stato facile costruire il racconto. Una sorta di crescendo: dallo scampanio del gregge al “ta-ta-boum” di “Don Raffaé”, fino all’esplosione musicale degli ultimi album. Più difficile cercare di rendere comprensibile a un lettore non siciliano il dialetto di Alfio che affonda le radici nell’antichità e nel gergo pastorale. Leggendo, però, “Riccardino”, il libro postumo di Andrea Camilleri, ho notato che ci sono tanti punti in comune fra il parlato di Alfio e la scrittura dell’autore agrigentino”.
Perché Alfio Antico non è diventato una star internazionale? Forse per il suo carattere troppo istintivo?
“Riporto una frase di Salvo Noto, per lungo tempo compagno di viaggio di Alfio. Frase inserita nel libro: «Alfio è un animale, selvaggio e ingenuo, che non agisce mai per ragioni di calcolo. Se fosse riuscito a gestirsi meglio, Alfio oggi sarebbe a New York, star internazionale». Ma forse, aggiungo io, non sarebbe l’artista e la persona che oggi tutti amiamo. Avrebbe perso la sua innocenza, la sua genuinità”.
E perché è un artista unico?
“La sua storia è unica. Il suo pollice è unico, tanto che l’ha voluto espressamente De André. Il suo modo di suonare il tamburo a cornice è unico. I suoi tamburi, autocostruiti, sono opere d’arte. I suoi testi poetici hanno un linguaggio unico. Il musicista lentinese non è un semplice ricercatore, né soltanto l’ultimo aedo di una cultura popolare. Alfio Antico non suona musica popolare, è la musica popolare. È la “radica” di una cultura ancestrale, le cui origini si perdono nel tempo. Non esiste un altro Alfio Antico, né potrà mai esistere. Come diceva Carmen, dovrebbe essere dichiarato patrimonio dell’umanità”.
Senza un’infanzia così dura e quel rapporto così intimo instaurato con la natura, il suo tamburo avrebbero suonato allo stesso modo? Vita e opere per Alfio Antico sono scindibili?
“Il tamburo è per lui l’unico giocattolo dell’infanzia, è lo scudo nelle notti trascorse sotto un cielo di stelle, è l’arma per scacciare gli spiriti e i lupi. Nel tamburo lui ha trasferito la natura con la quale ha vissuto a contatto quand’era pastore. Nel suo strumento risuonano il vento, il fuoco, la pioggia, il tuono, il fruscio delle fronde, l’ondeggiare delle spighe del grano, la risacca del mare. È un legame inscindibile quello tra il suo passato di “picuraro” e il suo presente di artista. Lui non ha mai rinnegato questo passato, tutt’altro. Tant’è che era più felice quando mi raccontava della sua vita di pastore, piuttosto che dei suoi lavori discografici. Si dilungava a parlarmi della famiglia Rizzo, i padroni del gregge, mentre tagliava corto quando gli chiedevo dei cantautori con cui aveva lavorato”.
Carmen Consoli, Lorenzo Urciullo e Cesare Basile, nell’ordine, hanno prodotto gli ultimi tre dischi di Alfio cucendogli addosso tre vestiti diversi. A tuo parere, qual è quello che gli calza meglio?
“Alfio, oltre a essere un musicista, è un attore. La sua esperienza teatrale, prima con Peppe Barra, poi sotto la regia di Maurizio Scaparro, a fianco di Giorgio Albertazzi, è stata importante nella sua formazione. E come tale, come attore, è capace di indossare alla perfezione qualsiasi costume. Nel concerto che ha tenuto questa estate ai MercatiGenerali per il Marranzano Fest sembrava un punk. Adesso sta registrando uno spettacolo con lo chef Carmelo Chiaramonte al ritmo di jazz. Anche per questo è unico. Alfio impersona la musica popolare, che non è musica folk, ma un incrocio di diverse influenze, contaminazioni, stratificazioni. Jon Hassell, nella ricerca di musiche possibili in comune con Brian Eno, fece incontrare la musica elettronica con mondi primitivi. Al centro c’era però la tromba di Hassell, educata sugli studi di Miles Davis, mentre le sonorità rituali facevano da tappeto. Alfio Antico inverte i fattori: le sonorità ancestrali sono in primo piano, mentre le altre musiche fanno da sfondo. Dal “futuro primitivo” si passa al “primitivo che diventa futuro”. L’Antico diventa moderno”.