Chiede alla popolazione di resistere e di non accettare il colpo di Stato. Il capo del governo birmano e premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è stata arrestata nel corso di un un golpe ordito dall’esercito. Premio Nobel per la pace, ma anche aspramente criticata dalla comunità internazionale per non aver voluto condannare la persecuzione, con tanto di esecuzioni sommarie e stupri, condotte dalle forze armate birmane nei confronti dei Rohingya.
Non si può parlare di Aung San Suu Kyi senza spiegare la complicata situazione politica del Myanmar: un Paese che dal 1962 al 2010 è stato guidato da giunte militari. Solo nel 2015, anno delle prime elezioni libere, si è instaurato un governo civile guidato proprio dal premio Nobel che con il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, vinse le elezioni. Paese a maggioranza buddista, il Myanmar ha sempre considerato i Rohingya «bengalesi» provenienti dal Bangladesh e dal 1982 ha negato loro la cittadinanza, rendendoli apolidi e negando loro libertà di movimento e altri diritti fondamentali. Sotto accusa è una campagna militare condotta nel 2017 nello Stato di Rakhine, sulla costa occidentale del Myanmar, che ha costretto 700mila persone a fuggire nel vicino Bangladesh. Si parla di villaggi rasi al suolo e dati alle fiamme, migliaia di morti e stupri sistematici. Sia il governo che i militari hanno sempre respinto le accuse di atrocità.
LEGGI ANCHE: Quello che un Papa coraggioso come Francesco avrebbe dovuto dire
Aung San Suu Kyi è nata nel 19 giugno 1945 a Rangoon, in Birmania (ora Myanmar). Figlia di Aung San, eroe nazionale birmano che ottenne l’indipendenza del Myanmar dal Regno Unito dopo anni di lotta, assassinato nel luglio del 1947, pochi mesi prima dell’indipendenza, che divenne ufficiale nel gennaio del 1948. Anche se non aveva esperienza politica, in virtù della sua storia familiare un gruppo di ex militari, intellettuali e studenti chiese a Aung San Suu Kyidi formare e guidare un nuovo partito, la Lega nazionale per la democrazia.
Aung San Suu Kyi è stata più volte arrestata e posta ai domiciliari dal regime militare birmano. Nel 1990 il regime convocò elezioni generali vinte in maniera schiacciante dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, che sarebbe quindi diventata Primo Ministro. Un voto non accettato dalla giunta militare che annullò il voto popolare. L’anno seguente Aung San Suu Kyi vinse il premio Nobel per la Pace e gli arresti domiciliari le furono revocati soltanto nel 1995, pur restando in uno stato di semilibertà e non potendo lasciare il Paese, perché in tal caso le sarebbe stato negato la possibilità di fare ritorno.
Dopo continui arresti e rilasci, oltre ad una condanna a tre anni di lavori forzati per violazione della normativa della sicurezza poi commutata in dalla giunta militare in 18 mesi di arresti domiciliari, soltanto nel novembre 2010 Aung San Suu Kyi fu finalmente liberata. Due anni dopo il premio Nobel ottenne un seggio al parlamento birmano, mentre in occasione delle prime elezioni libere del 2015 la Lega Nazionale per la Democrazia vinse ottenendo 291 seggi. Il governo era guidato da Htin Kyaw, con Aung San Suu Kyi prima ministro e poi dal 2016 Consigliere di Stato.
Ma negli anni ha deluso molti dei suoi sostenitori soprattutto perché il suo governo, che in parte ha continuato a dipendere dal potere dei militari, ha dapprima ignorato e poi difeso la persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya, compiuta dai militari a partire dal 2017 e considerata da molte organizzazioni internazionali come un genocidio. In Occidente, molti hanno chiesto che le fosse ritirato il premio Nobel, mentre altri hanno interpretato la difesa delle azioni dell’esercito da parte di Suu Kyi come un tentativo di preservare il fragile processo di democratizzazione del Myanmar. Nel dicembre 2019 era stata chiamata a difendersi davanti alla Corte penale internazionale all’Aja dall’accusa di genocidio contro la minoranza musulmana. Nel suo ruolo istituzionale, Suu Kyi ha dovuto rispondere delle accuse di genocidio formulate dal Tribunale penale dell’Aja proprio contro quei militari che per un ventennio lei stessa ha combattuto .