La dirompente entrata in scena nella politica italiana di Mario Draghi ha riacuito la mai sopita diatriba tra politici e tecnici al governo. Al grido “non sono stati eletti da nessuno”, i detrattori dei tecnici ritengono la loro presenza al potere uno schiaffo alle istituzioni democratiche. Per contro, i difensori sono convinti che le loro competenze tecniche possano consentirgli di assumere decisioni più utili, razionali e scevre dall’assillo del consenso. Probabilmente, come spesso accade, anche stavolta la verità sta in mezzo. Infatti, se è vero che spetta alla politica assumere le decisioni, è anche vero che queste devono poi necessariamente essere tecnicamente e operativamente declinate. Ed è qui che entra in ballo l’importanza delle competenze.
Inutile girarci intorno, da decenni la politica, con occhio spasmodicamente attento al sondaggio del giorno dopo, è al traino delle pulsioni popolari di breve respiro che ne guidano le scelte. E questo è un guaio. Un guaio che possiamo con tutta evidenza scorgere nelle politiche economiche di casa nostra, tanto popolari quanto dannose.
Complice la diffusione dell’utilizzo massivo dei social, abbiamo assistito ad una crescente mistificazione del significato autentico delle principali variabili economiche, qualche volta per ignoranza, altre in perfetta malafede.
Una massiccia campagna di disinformazione, spesso messa in atto con metodo scientifico, ha instillato la convinzione diffusa che il benessere economico possa essere facilmente raggiunto facendo ricorso al deficit e/o utilizzando la moneta che le banche centrali possono stampare (a loro dire) senza limite alcuno.
Sicché, chiunque volesse evidenziare i normali rischi connessi a politiche di bilancio inefficienti e/o imprudenti, diviene il cattivo che vuole l’austerity, contro i buoni che continuano a sostenere che il deficit sia null’altro che una utile risorsa per la collettività. Risorsa preziosa e inesauribile che, però, i cattivi “poteri forti”, i burocrati dell’euro e compagnia cantante, ci vorrebbero impedire di poter utilizzare a nostro piacimento. In questo senso, sgombrare il campo da certe opacità concettuali di massa che riguardano il deficit e altre importanti variabili economiche, ormai di uso comune (spread, PIL, ecc.), è divenuto ormai necessario e non più procrastinabile.
Stiamo parlando di vere e proprie bugie che, a furia di essere ripetute infinite volte, rischiano di divenire quelle false verità che vanno a minare alla base la formazione del consenso degli elettori, con il comprensibile rischio di conseguenti enormi danni per la società intera. Cercando adesso di entrare nel merito delle questioni sin qui accennate, è opportuno preliminarmente chiarire che le spese che trovano puntuale copertura nel bilancio di uno Stato vengono finanziate con tasse attuali, mentre le altre, quelle per l’appunto in deficit, saranno invece pagate con tasse future. Il deficit è dunque semplicemente questo: spendere oggi e far pagare il conto a quelli che verranno dopo, ovvero i nostri figli e nipoti. Ma bisogna anche aggiungere che con una certa quantità di debito ci convivono oggi, più o meno tranquillamente, tutte le economie del mondo e sarebbe un errore demonizzarlo tout court.
Il debito, infatti, diviene un problema reale soltanto quando assume livelli di insostenibilità, cioè quando il suo costo nominale (al netto inflazione) supera il tasso di crescita dell’economia su cui grava. Le variabili da osservare, ai fini della sostenibilità del debito, sono pertanto il costo (il tasso d’interesse richiesto dai mercati) e la crescita economica. A tal proposito, se spostiamo le lancette al momento (disgraziato, secondo i detrattori dell’euro) del trattato di Maastricht, è utile osservare che il costo medio che ogni anno pagavamo sul nostro debito superava, al lordo dell’inflazione, il 14% (Figura1).
Ciò significa che, in assenza della sua successiva discesa, inconfutabilmente da ascrivere al nostro ingresso nell’euro, la prua della nave Italia era puntata contro un possente iceberg dove ci saremmo di certo andati a schiantare. Salvo non ipotizzare, secondo i principi economici sopra esposti, una crescita annua pari o superiore al 14%.
Ciò a proposito di chi continua a ripetere che “si stava meglio quando si stava peggio”. Sono centinaia di miliardi, dunque, in termini di risparmi in conto interessi, i provvidenziali risparmi che ci sono piovuti dal cielo. Se fossero stati utilizzati a beneficio della crescita economica (il secondo fattore di sostenibilità sopra accennato) oggi la Germania e forse anche la Cina ci farebbero un baffo.

Purtroppo non è così che sono andate le cose. Anzi, ormai da decenni rappresentiamo, in termini di crescita del PIL, il fanalino di coda del mondo intero (Figura 2). Osservando i dati, risulta lampante che la situazione di crescita asfittica, dalla quale ormai endemicamente la nostra economia è pervasa, è stata determinata dalle scellerate scelte di politica di bilancio dei nostri politici. A loro, e solo a loro, deve interamente essere ascritto il demerito di aver indirizzato troppa spesa verso sprechi e prebende elettorali, con speculare sottrazione di risorse verso investimenti produttivi, ricerca, istruzione, sanità, infrastrutture, sburocratizzazione e molto altro ancora. Insomma, per dirla alla Draghi, tanto debito cattivo e poco debito buono.

Ora, per tornare alle nostre vicende di più stretta attualità, da qui a qualche mese ci ritroveremo con un debito monstre, pari a circa il 160% del PIL, con cui dover fare i conti. Avendo ben contezza che la pandemia non è la causa primaria, bensì un aggravante rispetto ad una situazione già notevolmente critica (Figura 3) e che urge trovare soluzioni, qui e ora, per evitare che tale montagna di debito possa definitivamente strozzare la nostra economia.

Come? Lo abbiamo detto prima. Dobbiamo fare in modo che il costo del debito sia sopportabile, ovvero che resti al di sotto del tasso di crescita della nostra economia. E se sul fronte dei costi, grazie agli interventi della BCE, possiamo godere di tassi incredibilmente bassi, il vero nodo da sciogliere resta, comprensibilmente, quello della crescita. Per nostra fortuna, ancora una volta, ci viene lanciata una enorme ciambella di salvataggio da parte dell’Europa.
Stiamo parlando, evidentemente, dei fondi assegnatici da Next Generation-Eu (Ng-Eu). Oltre 210 miliardi a nostro favore di cui più di un terzo elargiti a fondo perduto e la restante parte da rimborsare in comode rate, fino al 2056, a tassi addirittura negativi, cioè restituendo complessivamente meno di quanto ricevuto. Una montagna di denaro che, tuttavia, da sola non basterà a risollevare le sorti della nostra disastrata economia. Bisognerà, infatti, oltre a prediligere il debito buono rispetto a quello cattivo, trasformare la questione delle cosiddette “riforme strutturali” da vuoti e ripetitivi slogan a misure vere e concrete.
Ma fare le riforme strutturali, significa dover entrare a gamba tesa negli interessi delle numerose e potenti lobby, significa dover rivoltare l’Italia come un calzino con misure ferme e di certo fortemente impopolari, almeno nell’immediato. E sarebbe necessario un vigoroso sforzo di immaginazione per poter pensare che il tipico (già sopra descritto) approccio dei nostri politici, senza sostanziale soluzione di continuità negli ultimi decenni, possa di colpo mutare. Serve dunque comprensione chiara dei problemi, capacità tecniche e assenza di conflitti derivanti dal consenso.
Buon lavoro, Mario Draghi!