Una vittoria data quasi per certa dagli osservatori della politica iraniana quella del candidato ultraconservatore Ebrahim Raisi che con il 62% dei consensi diventa il nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Iran. Dopo otto anni di presidenza Rouhani, l’amministrazione iraniana si sposterà quindi quasi certamente verso destra, rendendo assai più complicata la già fragile relazione con i paesi occidentali, e soprattutto con gli Stati Uniti.
Ebrahim Raisi è attualmente a capo del sistema giudiziario dell’Iran ed era il candidato preferito dalla Guida suprema Ali Khamenei, il leader assoluto dell’Iran e rappresentante della fazione più radicale del regime, di cui è anche accreditato come potenziale successore. «Né i problemi economici, né la pandemia né la propaganda dei nemici che cercavano di deludere il popolo per non farlo votare, hanno potuto minare la determinazione della nazione», ha detto la Guida Suprema, Ali Khamenei.
Il nuovo presidente dell’Iran ha un passato piuttosto controverso: nel 1988, alla fine della guerra che l’Iran stava combattendo contro l’Iraq, fece parte di una delle cosiddette “commissioni della morte” che ordinarono esecuzioni di massa di migliaia di prigionieri politici e combattenti nemici. Il Raisi è stato sanzionato dagli Stati Uniti nel 2019 per violazione dei diritti umani, compresa l’esecuzione di minori e le torture di prigionieri. Capo della magistratura iraniana sostenuto dall’ayatollah Khamenei, è stato anche coinvolto anche nella brutale repressione delle proteste del Movimento Verde.
L’elezione di Raisi incombe sulla rinegoziazione in corso tra Washington e Teheran del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo sul nucleare iraniano, firmato da Barack Obama e Hassan Rohani nel 2015 e dal quale Donald Trump è uscito nel 2018.Khamenei insiste sul fatto che gli Stati Uniti tolgano tutte le sanzioni prima che l’Iran possa tornare a rispettare i termini del Jcpoa. L’amministrazione Trump ha imposto circa 1.500 sanzioni contro l’Iran nel 2018. La Casa Bianca ha fatto sapere di essere disposta a far decadere le contromisure “non coerenti” con i termini dell’intesa nucleare.