L’intesa sulla tassazione minima siglata con il coordinamento dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, da 130 Paesi su 139 inizia a fare i conti con gli ostacoli che ancora restano per renderla effettiva. All’appello tra i firmatari mancano 9 Paesi, ma a preoccupare sono soprattutto le tre defezioni europee. Irlanda, Ungheria ed Estonia per il momento hanno detto no al piano, già avallato dal G7, che prevede una aliquota minima del 15% e una redistribuzione almeno parziale delle tasse pagate dalle multinazionali, allocando parte di quel gettito nei Paesi in cui gli utili vengono effettivamente realizzati.
Secondo le stime dell’Ocse la nuova tassa genererà di un gettito aggiuntivo a livello globale di almeno 100 miliardi di dollari l’anno che, almeno in una certa misura, dovrebbero restare nei Paesi in cui le multinazionali fanno affari e incassi. La presenza di un’aliquota unica globale mette fuori gioco i paradisi fiscali che, infatti, si sono opposti alla riforma. Bermuda (dove le multinazionali non pagano tasse sugli utili) ha affermato che quella della tassazione è una questione di sovranità nazionale. Tra i 9 paesi che non hanno firmato l’intesa Irlanda, Estonia ed Ungheria (oltre a Kenya, Nigeria, Sri Lanka, St Vincents e Grenadines). Tutte le nazioni del G20 hanno invece sottoscritto la riforma fortemente voluta dagli Stati Uniti che chiedono però in cambio l’eliminazione delle web tax nazionali.
Irlanda, Ungheria ed Estonia insieme valgono appena il 4% del Pil Ue e il 3,6% della popolazione, ma il loro potere negoziale è amplificato dalle normative comunitarie, che richiedono il varo di una direttiva approvata all’unanimità. E i primi segnali non sono incoraggianti.
«La minimum tax globale ostacolerebbe la crescita, l’aliquota del 15% è troppo alta e non dovrebbe essere applicata alle attività economiche reali», ha sentenziato ieri il ministro delle Finanze ungherese Mihaly Varga, salvo poi smorzare i toni dicendosi pronto a continuare colloqui «costruttivi» con i partner Ocse per raggiungere «un accordo appropriato». L’Ungheria, con una corporate tax del 9%, ha l’aliquota più bassa nell’Unione europea e l’ha sfruttata per attrarre robusti investimenti nel settore automobilistico e manifatturiero (da Bmw agli impianti per la produzione di batterie): investimenti che hanno trainato la crescita e l’impiego, contribuendo a rafforzare il potere del premier Viktor Orban e offrendogli una solida base di consenso per reggere lo scontro con l’Unione europea sullo Stato di diritto. Non è un caso che Orban qualche giorno fa abbia definito «assurdo» il fatto che «un’organizzazione internazionale si arroghi il diritto di dire quali tasse l’Ungheria può imporre e quali no».
L’Irlanda ha almeno due evidenti motivi per non voler aderire all’accordo: oltre a offrire una tassa sui profitti del 12,5%, concede alle imprese che traggono profitto da brevetti e software un’aliquota dimezzata, del 6,25%. Questa è l’aliquota che si applica a gran parte delle multinazionali oggetto dell’accordo: società operanti su Internet che offrono servizi digitali in tutta Europa attraverso i loro software, come per esempio Google e Facebook. Fino al 2015, il paese è stato in grado di attrarre grandi multinazionali americane grazie a un regime fiscale ancora più permissivo, che consentiva loro di attuare una strategia chiamata “Double Irish”, o “doppio irlandese”, perché implicava la creazione di due società di diritto irlandese. La strategia di elusione fiscale risultante, molto complessa, consentiva alla multinazionale di pagare in tasse cifre molto basse sui profitti generati al di fuori degli Stati Uniti – tra il 2,2 e il 4,5% – sfruttando le regole fiscali dei paesi coinvolti e gli accordi fiscali tra loro. Dal 2015, l’Irlanda ha modificato le sue leggi fiscali per mettere fine a questa pratica, concedendo però in cambio alle multinazionali l’aliquota ridotta del 6,5% per evitare che lasciassero il paese. L’accordo Ocse metterebbe quindi a repentaglio questo vantaggio fiscale che l’Irlanda ha tuttora nei confronti di altri stati europei.
C’è poi il caso dell’Estonia. In questo paese baltico, dove le aliquote per le imprese vanno dal 14 al 20%, le tasse si pagano solo sui profitti distribuiti. In altre parole, se un’impresa decide di reinvestire i propri profitti, questi non vengono tassati. Perciò, il momento in cui la tassa viene determinata si sposta da quello in cui il profitto viene generato a quello in cui viene distribuito. Questo fa sì che il pagamento delle tasse possa essere posposto per anni, il che crea un problema perché, come osservato dal ministero delle Finanze estone, «la versione attuale dell’accordo permette allo stato in cui si trova la sede della società di tassare il profitto guadagnato in Estonia se l’Estonia non ha tassato il profitto della filiale locale entro tre o quattro anni». Insomma, l’Estonia rischia di vedere altri paesi raccogliere i profitti che lei non ha tassato al momento della generazione. Sentito da Bloomberg, il ministero delle Finanze estone ha detto che la proposta è ancora troppo vaga per prevedere la posizione finale del paese a riguardo.
Oltre a Irlanda, Estonia e Ungheria, all’accordo non hanno aderito nemmeno Perù (che non l’ha fatto perché al momento si trova senza un governo), Sri Lanka, Nigeria e Kenya, oltre a noti paradisi fiscali come le Barbados, Saint Vincent e Grenadine.