Inglese, sudafricana, brasiliana, indiana. O meglio alpha, beta, gamma, delta, come l’Oms ha voluto rinominare le varianti Covid per sganciarle dal luogo dove sono state sequenziate la prima volta ed evitare così associazioni geografica che potrebbero essere fuorvianti. Comunque le si voglia chiamare è evidente che le varianti, la Delta in testa, sono la preoccupazione principale per fermare la diffusione del virus. A tal proposito la ricerca farmacologica continua su più fronti: ci sono oltre 800 farmaci in varie fasi di sviluppo nel mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali e circa 400 farmaci di altro genere.
Alcuni studi sono arrivati al traguardo pochi giorni fa, come il nuovo anticorpo monoclonale sotrovimab, prodotto dalla Gsk, approvato da Aifa il 6 agosto scorso. Dovrebbe coprire da tutte le attuali varianti e sarà impiegato per chiunque (da 12 anni in su) sia ad alto rischio di progressione severa. Altri risultati vedranno la luce invece nel 2022, come il farmaco orale della Pfizer, molto atteso.
L’Aifa ha aggiornato le modalità di utilizzo degli anticorpi monoclonali anti-Covid in relazione alle nuove evidenze di letteratura che si sono rese recentemente disponibili. In particolare, è stato dato parere positivo all’utilizzo dell’anticorpo sotrovimab che ha dimostrato un favorevole rapporto beneficio/rischio anche nei confronti delle principali varianti circolanti di Sars-CoV-2. L’anticorpo monoclonale sotrovimab, prodotto da GlaxoSmithKline , va così ad aggiungersi agli altri anticorpi monoclonali già in uso: bamlanivimab, etesevimab, casirivimab e imdevimab. Gli anticorpi monoclonali sono proteine create in laboratorio che presentano le stesse caratteristiche di quelle prodotte dal nostro organismo e che riescono a legarsi a un solo antigene dell’agente che si vuole combattere, in questo caso il Covid-19. Gli anticorpi monoclonali per la cura del Covid-19 disponibili in Italia si differenziano tra di loro per capacità di neutralizzare le diverse varianti circolanti.
La Pfizer ha iniziato la sua fase 2 del suo antivirale. PF-07321332 è un farmaco che agisce inibendo un enzima fondamentale per la replicazione dei coronavirus, che si chiama proteasi “3C-like”, ci si aspetta quindi che la sua azione possa consistere nel blocco della replicazione di Sars Cov 2. La strategia dichiarata di Pfizer alla base dello sviluppo di questo farmaco è che i suoi ricercatori per primi si attendono per il futuro, indipendentemente da qualsiasi altro fattore, continui focolai di Covid che richiederanno quindi un trattamento possibilmente non soltanto ospedaliero (da cui anche la scelta di abbandonare il farmaco analogo ma utilizzabile solo per iniezione endovenosa).
Anche AstraZeneca sta sperimentando un nuovo farmaco che potrebbe sostituire il vaccino anti-Covid. AZD7442 è una combinazione di due monoclonali, tixagevimab e cilgavimab, derivati dai linfociti di persone guarite dal Covid e ingegnerizzati in modo da persistere nell’organismo per molti mesi. Si può stimare un’efficacia relativa del 77%. Secondo AstraZeneca il mix potrebbe proteggere i pazienti fino a 12 mesi dopo il trattamento, che finora è stato testato su 5.197 partecipanti tra Belgio, Francia, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito. Alla metà di questi è stato dato un placebo, mentre l’altra metà ha ricevuto il farmaco. Più del 75% dei volontari aveva altre patologie pregresse, comprese delle condizioni che riducono la risposta immunitaria alla vaccinazione o che ne impediscono l’adesione alla campagna vaccinale. Non sono stati rilevati particolari eventi avversi nel gruppo a cui è stato somministrato il mix di anticorpi monoclonali rispetto al gruppo di controllo. La farmaceutica ha già dichiarato che intende chiedere l’autorizzazione in emergenza del farmaco, che costituirebbe così una forma di profilassi alternativa ai vaccini.
Un farmaco ha raccolto molto interesse in Israele, con oltre il 90% di efficacia su pazienti in stato avanzato. Si chiama EXO-CD24,una glicoproteina espressa da molte cellule del nostro sistema immunitario, il cui ruolo fisiologico consiste nel ridurre la risposta infiammatoria. La sua attività è ridotta in stati infiammatori gravi come ad esempio le sepsi. Da qui l’idea di impiegarla per prevenire o curare il quadro più grave di Covid 19, la cosiddetta “tempesta citochinica” che altro non è che una condizione di iperattivazione incontrollata del sistema immunitario deleteria per l’organismo. A oggi sono stati condotti studi iniziali, di fase I e fase II, il primo su 30 persone e il secondo su 90, tutte con Covid. I benefici clinici sono tuttavia stati notevolissimi se è vero che, stando a quanto riportano le agenzie, prima 29 pazienti su 30 e poi 84 su 90 sarebbero guariti in massimo cinque giorni. Bisogna attendere la conclusione degli studi. Se davvero tutto andasse per il meglio, il farmaco potrebbe essere reso disponibile già nel corso del 2022.