L’elezione di Mario Draghi al Quirinale torna prepotentemente d’attualità. Potrebbero pure chiamarla “operazione Carlo Azeglio”: Ciampi a capo di un governo tecnico citato è stato eletto presidente della Repubblica al primo scrutinio. I tempi non sono ancora maturi, ma l’ultima mossa di Giuseppe Conte, maturata dopo la sconfitta dell’asse con il Pd nel voto al Senato sul Ddl Zan, fa tornare d’attualità un’ipotesi che sembrava impossibile da percorrere: far traslocare il premier da Palazzo Chigi al Colle. «Non possiamo escluderlo, serve una figura di altissima caratura morale e Draghi rientra in questa descrizione, ma devono realizzarsi varie condizioni», ha detto il presidente del M5s.
Un anno fa il nome di Draghi era quello del candidato naturale per raccogliere la successione di Sergio Mattarella. Ma in un anno il quadro politico è stato profondamente mutato. La mossa di Renzi ha portato alla caduta del premier Conte, che è stato sostituito proprio da Draghi. Con l’entrata di Draghi a Palazzo Chigi, però, è andata via via tramontando l’ipotesi di un’elezione al Quirinale. Non perché il diretto interessato si sia dichiarato indisponibile – anzi fino a oggi Draghi ha sempre dribblato ogni domanda diretta sul tema – ma piuttosto per allontanare lo spettro del voto anticipato.
Dopo l’apertura di Conte, c’è anche quella di Matteo Salvini: «Se mi chiedono se Draghi sarebbe un buon presidente della Repubblica, rispondo che lo voterei domattina. Ma sul Quirinale gli scenari cambiano ogni momento. Draghi è certamente una risorsa per il Paese, ma non so se voglia andarci. Anche se ci andasse, non credo che ci sarebbero le elezioni anticipate», sono le parole accreditate al leader della Lega a Bruno Vespa. Attenzione però: essendo le dichiarazioni di Salvini contenute nell’ultimo libro di Bruno Vespa, “Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando)”, sono state rilasciate prima dell’intervista di Conte da Annunziata su Rai 3. In ogni caso Salvini aveva già aperto a Draghi al Quirinale, subordinando il suo appoggio a una candidatura formale. «Se il presidente Draghi vuole proporsi, ha il nostro convinto sostegno», aveva detto già nel maggio scorso.
Nel frattempo, però, il capo della Lega ha assicurato il suo sostegno a Silvio Berlusconi. Così come ha fatto Fratelli d’Italia: «Se Berlusconi avesse delle reali chance e non fosse solo un candidato di bandiera, il centrodestra non può che coltivarle e quindi non potremmo non votarlo», ha detto Ignazio La Russa. Difficile, però, visto che i voti del centrodestra da soli, in ogni caso, non bastano per eleggere il nuovo capo dello Stato.
Per Enrico Letta mandare Draghi al Quirinale per poi andare al voto «non è l’interesse dell’Italia». Una posizione dettata dall’evidente rischio urne, ma forse anche dal fatto che dentro al Pd sono in parecchi quelli che si considerano legittimi aspiranti al Colle: da Dario Franceschini a Paolo Gentiloni. «Dobbiamo spingere al 6% di Pil, dobbiamo continuare ad attuare il Pnrr e l’avvio iniziale è fondamentale: in tutto questo, pensare di eleggere un presidente e un attimo dopo andare a votare, chiunque sia, non è nell’ordine delle cose», è il ragionamento di Letta. Tradotto in termini pratici significa garantire l’esistenza di un nuovo governo anche dopo l’elezione di Draghi al Colle. Magari mantenendo in vita l’esecutivo tecnico attualmente in carica, con Daniele Franco che si trasferisce dal ministero dell’Economia a Palazzo Chigi.
In tutti gli scenari i 43 voti di Italia viva di Matteo Renzi sono fondamentali per eleggere il presidente della Repubblica tranne nel caso che prevede l’elezione di un capo dello Stato a larga maggioranza. Un nome che trovi il consenso di tutti o quasi è fino a oggi una ipotesi considerata molto improbabile. I tempi sono ancora poco maturi, ma di sicuro c’è solo che alla fine di gennaio del 2022 a Montecitorio si riuniranno i 1008 Grandi elettori. Ai 630 deputati e 320 senatori (gli eletti più quelli a vita) si aggiungeranno 58 delegati locali: ogni Regione sceglierà due esponenti per la maggioranza e uno per la minoranza, tranne la Valle d’Aosta che invierà a Roma solo un rappresentante. I delegati regionali non sono ancora stati eletti ma, stando a chi governa le Regioni, dovrebbero essere 33 del centrodestra e 24 del centrosinistra. Come è noto nelle prime 3 votazioni, a scrutinio segreto, serviranno i 2/3 dei voti dell’assemblea, pari a 673 voti. Dopo il terzo scrutinio, invece, è sufficiente la maggioranza assoluta, pari a 505. È a quel punto che, senza un accordo, si farebbero i giochi. Ed è per provare a evitare quel quarto scrutinio che Conte ha aperto a Draghi.
La coalizione formata da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega può contare su 451 grandi elettori. Se a questi si sommano i 43 di Italia viva ecco che il totale fa 494: ne mancherebbero solo 11 per arrivare alla soglia magica di 505, utile per eleggere un presidente al quarto scrutinio. E undici voti, considerata la trasversalità dei gruppo Misto, non sono difficile da ottenere. Ecco perché Berlusconi continua a sognare l’elezione.
Dall’altra parte l’asse che si fonda sul centrosinistra e il M5s può contare su 420 voti. Questo blocco, ai quali si aggiungono i 24 delegati regionali più Gianclaudio Bressa, iscritto al gruppo per le Autonomie ma eletto con il Pd, arriva a quota 420. Ma ci sono anche molti ex 5 stelle che dal 2018 a oggi hanno perso più di cento parlamentari: tra quelli che fanno parte del gruppo l’Alternativa c’è (19) e quelli nel Misto (24), si può arrivare a 463 voti. A questo punto, dunque, i 43 Grandi elettori del partito di Renzi diventerebbero fondamentali per superare la soglia dei 505 pure per un eventuale candidato del centrosinistra.