La partita politica si giocherà in Senato. Giovedì 14 luglio si voterà, con la fiducia, il via libera definitivo al dl Aiuti, provvedimento fortemente sostenuto dal governo Draghi per dare un supporto a imprese e famiglie in questa complicata fase per l’economia, crisi acuita soprattutto dal forte rincaro delle bollette e dall’aumento dell’inflazione. I pentasetllati non hanno preso parte alla votazione finale a Montecitorio contestando alcune scelte del provvedimento.
Tra i punti chiave, oltre appunto all’esborso dello Stato per contenere i costi dell’energia, il dl Aiuti prevede anche delle restrizioni sul Reddito di cittadinanza, una misura per facilitare la costruzione dei termovalorizzatori e lo stop a nuove coperture sul Superbonus 110% per l’edilizia. Il M5s ha molto a cuore questi punti, anche perché ritenuti cardine del proprio consenso elettorale. «Era una decisione già chiara, perché c’è una questione di merito per noi importante che avevamo anticipato, c’è una questione di coerenza e linearità, quindi nulla di nuovo. Era stato anche anticipato, è tutto chiaro», ha commentato il leader del M5S Giuseppe Conte.
Una posizione che apre scenari nuovi, con Mario Draghi a colloquio con Sergio Mattarella al Colle. A irritare e preoccupare Draghi non c’è solo lo smarcamento dei 5 Stelle sul decreto Aiuti, ritenuto «gravissimo» da molti big della maggioranza. A convincere il presidente del Consiglio che così il suo governo non può andare avanti è stata la mossa di Silvio Berlusconi . Il leader di Forza Italia ha chiesto al premier di «sottrarsi alla logica politicamente ricattatoria» del M5S e di avviare una verifica di maggioranza.
Se il M5s, come ha fatto alla Camera, uscirà dall’emiciclo anche a Palazzo Madama, i numeri per la fiducia sono comunque assicurati, ma resterebbe il nodo politico. Giuseppe Conte, leader del Movimento, ha presentato al premier Draghi un documento con 9 punti sui quali chiede un netto cambio di marcia da parte dell’esecutivo. Si chiede la tutela del reddito di cittadinanza (oltre all’introduzione del salario minimo), il no alla norma pro inceneritori e deroghe sul Superbonus. Tutti punti su cui il capo del governo è scettico.
L’ipotesi di un’astensione al Senato del M5s circola da giorni, come confermato anche dal ministro Stefano Patuanelli: «Vediamo, non lo escludo, bisogna vedere quale sarà il ragionamento politico con Draghi». Il Movimento attende un segnale dal presidente del Consiglio sulle nove priorità illustrate da Giuseppe Conte. Qualcosa potrebbe muoversi con la riunione di Draghi con i sindacati prevista per martedì, in cui si dovrebbero cominciare a sviscerare diversi temi di peso, non indifferenti per i pentastellati: dai minimi salariali al taglio del cuneo fiscale.
Se Conte dovesse comunque dettare l’ordine di votare no alla fiducia a Palazzo Madama, di fatto uscirebbe dalla maggioranza e potrebbe optare per un appoggio esterno al governo. Ma in questo scenario il governo rischierebbe di cadere? I numeri dicono di no, anche perché la scissione dal M5S dei governisti fedeli al ministro Luigi Di Maio ha puntellato ulteriormente il sostegno a Draghi. Al Senato la maggioranza attuale è di 276 voti. In caso di addio di Conte la soglia si abbasserebbe a 214, anche in questo caso ben sopra i 161 voti necessari.
Il problema non è quindi numerico, ma profondamente politico. Il governo Draghi è nato con un profilo di unità nazionale durante la pandemia, sostenuto da tutti i partiti ad eccezione di Fratelli d’Italia. Un eventuale addio dei grillini, di gran lunga prima forza parlamentare a inizio legislatura, ma ora non più, aprirebbe comunque una profonda ferita.