Del Long Covid è sempre stato difficile delineare i contorni, le persone che anche dopo la guarigione lamentano uno stato di malessere presentano spesso sintomi e condizioni diverse, ma ora una recente ricerca norvegese pubblicata su Jama network open, prestigiosa rivista collegata all’American medical association, è arrivata alla conclusione che il Long Covid non esiste: stessi sintomi tra chi si è infettato e chi invece non ha mai avuto il virus.
Sono stati coinvolti 382 individui che avevano ricevuto un tampone molecolare positivo al virus Sars-Cov-2 e altre 85 persone come “gruppo di controllo”, ovvero, nell’ambito scientifico, quel gruppo di soggetti che, nel corso di un esperimento, vengono mantenuti nelle stesse condizioni di quelli in esame, ma non subiscono il trattamento che è oggetto della sperimentazione, così da poter effettuare una comparazione statistica. Ebbene, sono stati osservati esattamente gli stessi sintomi tra chi si è infettato e chi, all’opposto, non ha mai contratto il virus: tutti soggetti tra i 12 e i 25 anni, seguiti per sei mesi e sottoposti a esami, test e accertamenti approfonditi. Dunque, sono stati evidenziati addirittura 78 potenziali fattori di rischio, per lo sviluppo dei “postumi” dal Covid. La notizia è che il Covid in quanto tale non c’entra praticamente nulla, poiché i risultati dell’osservazione dei due gruppi mostrano chiaramente che il 49% degli infettati e il 47% dei non infettati presentavano gli stessi sintomi, numeri di fatto sovrapponibili.
La conclusione cui giunge lo studio norvegese, pertanto, è che giochino un ruolo importante anche fattori piscologici e psicosomatici, quelli che gli studiosi norvegesi chiamano “Stress da lockdown”, dovuto anche all’ansia e al clima pesantissimo instaurato dal terrore instillato dai media e dalle autorità politiche e scientifiche. Quello che viene definito Long Covid (Post-Covid-19 condition, Pcc) peraltro, nota ancora lo studio degli scienziati nordeuropei, ha dei contorni indefiniti e generici: «Comprende qualunque sintomo ricorra come postumo del Covid acuto, non richiede la persistenza del sintomo dall’evento infettivo e non identifica una disabilità significativa».
I sintomi sono comuni “nella popolazione generale”, ovvero, in altre parole, viene riportato il caso del sintomo dell’affanno: riscontrato in una percentuale degli adolescenti britannici oscillante tra il 34 e il 38%. E ciò si spiega col fatto che «numerosi studi hanno documentato un aumento significativo nella sofferenza psicologica della popolazione generale durante la pandemia», condizione che proprio i più giovani hanno maggiormente patito. Le “contromisure sociali” e i “diktat”, in definitiva, peggiorerebbero la capacità stessa di reazione al virus.
Questa del disagio interiore da pandemia non è una invenzione dei ricercatori norvegesi, ma è essenzialmente dettata dall’impossibilità di rilevare «un elemento fisiologico chiaramente correlato ai postumi del contagio». Già alcuni mesi fa, nel settembre del 2022, su Jama psychiatry un’indagine svolta su 54.000 operatori sanitari all’università di Harvard dimostrava come depressione, ansia, stress e solitudine e preoccupazione per il contagio fossero condizioni evidentemente favorite dal clima di terrore che si era instaurato, e tendevano ad accompagnarsi a manifestazioni più gravi della malattia qualora si fosse contratto il Covid. Addirittura la vulnerabilità al Covid cresceva, in questi soggetti, tra il 32 e il 46%.
L’Unione europea, frattanto, ha già stanziato ben 100 milioni di euro per le terapie mirate per il cosiddetto Long Covid. Proprio l’esortazione ai più giovani a vaccinarsi puntava all’obiettivo di «evitare la possibilità di avere per mesi i sintomi del Covid», come sottolineava Anthony Fauci, il virologo della Casa Bianca. Prima creano le condizioni perché la gente si ammali, poi le chiedono di vaccinarsi per schivare la malattia, e infine spendono milioni per curarla. Il tutto a nostre spese.