Dopo le proteste cominciate dopo la morte di Nahel, il ragazzo di 17 anni ucciso martedì scorso dalla polizia a un posto di blocco, la questione del razzismo e della condizione sociale che coinvolge le banlieue sono tornate al centro della discussione politica in Francia. Si tratta delle periferie delle grandi città, quelle dove vivono soprattutto persone migranti o francesi di terza o quarta generazione. Con il tempo la parola banlieue ha iniziato però ad essere usata non tanto per indicare un luogo periferico, ma uno spazio associato a delinquenza, miseria o rivolte.
«La Francia si rifiuta di riconoscere i propri errori, ancora una volta. E continua a emarginare generazioni di immigrati», ha scritto dopo l’uccisione di Nahel, che aveva origini algerine, il quotidiano algerino in lingua araba El Khabar. E ancora: «Se Nahel fosse stato bianco con gli occhi azzurri, non sarebbe scappato (…) aveva paura. E se i passeggeri dell’auto fossero stati bianchi con gli occhi azzurri, il poliziotto non avrebbe pensato di sparare a bruciapelo», ha detto Zyed Krichen, direttore del quotidiano tunisino al-Maghreb. «Non si tratta solo del rapporto della polizia con i cittadini, ma anche del rapporto che questo paese ha con le generazioni di immigrati».
Una situazione di tensione altissima, che i francesi hanno già vissuto sulla propria pelle quasi 18 anni fa, per ben tre settimane, tra ottobre e novembre 2005. Già allora infatti avvenne un episodio simile, ossia la morte di due diciasettenni e il ferimento di un terzo, folgorati da un trasformatore all’interno di una cabina elettrica mentre, pare, scappavano dalla polizia. Evento che fu seguito dal lancio di una granata di gas lacrimogeno nella moschea Bilal di Clichy-sous-Bois, in quel momento gremita di fedeli raccolti in preghiera per celebrare una notte del Ramadan sacra per i mussulmani, e che contribuì a far accrescere la tensione.
Già allora Sarkozy, come Macron oggi, fece fatica a fermare le violente proteste. La Francia, che vuole spiegarci come si gestisce l’immigrazione irregolare, si ritrova in casa periferie composte da immigrati di seconda, terza, quarta generazione, che ciclicamente non riescono ad integrarsi. Una società multietnica che non riesce a reggere l’urto di una identità forte. Nel corso dei decenni, e già dalla fine degli anni Settanta, i vari governi hanno tentato di intervenire con dei piani specifici per migliorare la situazione delle banlieue e ridurre il divario con altre zone del paese. Negli ultimi vent’anni sono stati spesi più di 60 miliardi di euro per rinnovare le abitazioni, demolire le più fatiscenti, costruirne di nuove, aprire scuole e moltiplicare le linee degli autobus per ridurre l’isolamento di questi quartieri. Ma i risultati dei diversi interventi si sono rivelati tutti piuttosto fallimentari.
La prima rivolta delle banlieue risale al 1979: scoppiò a Vaulx-en-Velinun, sobborgo di Lione, dopo l’arresto di un adolescente di origine nordafricana. Dal 1979 ad oggi, passando per la protesta del 2005 a di Clichy-sous-Bois, le rivolte attraversato il paese avevano delle costanti: giovani uccisi e feriti dalla polizia o perché avevano avuto a che fare con la polizia e, ogni volta, episodi di saccheggio o vandalismo contro le strutture pubbliche. Non è un caso, dunque, che la rabbia delle banlieue, compresa quella di questi ultimi giorni, abbia portato a colpire tutto ciò che rappresenta un simbolo dello Stato o del sistema, come biblioteche o scuole.
Ma se queste rivolte si ripetono praticamente in modo identico e con le medesime rivendicazioni ogni volta, è perché nessuna di esse è stata convertita politicamente: le proteste, anche radicali, delle periferie non hanno cioè mai trovato uno sbocco o una rappresentanza politica. Se la sinistra da una parte condanna il razzismo e la violenza della polizia e ne propone un’essenziale riforma, non fa nulla per una vera integrazione.
C’è una parte di Francia convinta che neri e arabi siano sottomessi e sfruttati dai bianchi. E c’è una parte di Francia che non scende in piazza ma è convinta che ci siano «troppi neri e troppi arabi». In mezzo c’è Emmanuel Macron. C’è quel pezzo di Francia liberale, centrista, europeista, moderna, che ha visto in lui l’uomo del futuro, ma forse ha trovato solo un modo per prendere tempo, per resistere all’avanzata del populismo antisistema, a quella rivolta contro l’establishment, le élite, lo Stato che è il vero segno del nostro tempo. Per sei anni Macron è sembrato l’argine contro tutto questo. Contro il razzismo dei bianchi e il contro-razzismo dei figli degli immigrati. Contro la destra radicale di Marine Le Pen e la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon. Ma ora quell’argine rischia di crollare.
I figli delle banlieues gridano di essere discriminati. Non si sentono francesi perché sostengono di non essere trattati come tali. I loro padri erano disposti a pagare il prezzo del lavoro duro e malpagato, perché fuggivano dalle ex colonie dell’impero. Ma i figli hanno avuto l’impressione di essere considerati cittadini di serie B, per il loro aspetto, per il loro accento, anche solo per l’indirizzo e il dipartimento scritti sulla carta di identità. Dall’altra parte, c’è una Francia che più o meno sommessamente dà loro ragione, nel senso che non li considera veri francesi. È una frattura ormai evidente. E magari fosse tutta colpa di TikTok, come è parso dire Macron in un’uscita che non sarà certo ricordata tra le sue migliori.