Il coronavirus era già centrale, ora diventa l’arbitro inappellabile della corsa alla Casa Bianca. Donald Trump positivo al test, prima con «sintomi lievi», poi ricoverato in un ospedale militare per una «cura sperimentale», ha cancellato tutti i suoi impegni. Nonostante il ricovero, la Casa Bianca ha specificato che Trump manterrà la carica di presidente: i poteri non passeranno quindi al vicepresidente, Mike Pence, come prevede una clausola della Costituzione americana nel caso in cui il presidente «non fosse in grado» di esercitarli.
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Trump ha 74 anni, è in sovrappeso, ha problemi di colesterolo e ha avuto in passato problemi cardiaci: è un soggetto a rischio, ed era dall’attentato contro Ronald Reagan del 1981 che un presidente degli Stati Uniti non subiva una minaccia diretta alla propria vita. Stavolta sta accadendo a un mese dalle elezioni presidenziali. Se Trump dovesse migliorare e guarire nel giro di pochi giorni, non ci sarebbero particolari conseguenze. Se invece la situazione dovesse precipitare, si aprirebbero scenari fino a pochi giorni fa inimmaginabili.
La chiave è il venticinquesimo emendamento. Se lo stato di salute di Donald Trump dovesse renderlo (anche temporaneamente) inabile a esercitare le funzioni di presidente, la Costituzione degli Stati Uniti ha da 53 anni una risposta chiara. Nel caso un presidente sia a conoscenza che perderà temporaneamente la capacità di governare, esiste una clausola che gli permette di firmare una lettera per cedere i suoi poteri al vicepresidente nel caso «non sia in grado» di esercitarli, per riprenderli poi una volta tornato in salute. La clausola è stata applicata tre volte nella storia: il 13 luglio del 1985, quando Ronald Reagan subì un’operazione per rimuovere il principio di un tumore, e due volte durante la presidenza di George W. Bush, quando l’allora presidente si sottopose ad altrettanti esami di colonscopia subendo un’anestesia. In tutti e tre i casi i vicepresidenti diventarono presidenti pro tempore, con poteri identici al loro capo.
La quarta sezione dello stesso emendamento prevede che il presidente possa essere temporaneamente rimosso dal suo incarico per le stesse ragioni anche senza che firmi una lettera – in caso di un problema improvviso – a patto che siano d’accordo sia il vicepresidente sia la maggioranza dei componenti del governo o di un altro organo designato dal Congresso. Finora la quarta sezione non è mai stata invocata. Anche in questo caso il presidente riprende il potere non appena torna in grado di farlo.
Se le condizioni del presidente peggiorano le regole del Partito Repubblicano prevedono che la dirigenza tenga una nuova convention nazionale per decidere il nuovo candidato. Considerati i tempi enormemente ristretti, la convention avverrebbe sicuramente a distanza e si risolverebbe con una decisione scelta dai dirigenti del partito. Lo strafavorito per ottenere la nomination, in quel caso, sarebbe l’attuale vicepresidente Mike Pence: ma la sua nomina non sarebbe automatica. Il partito potrebbe teoricamente scegliere qualcun altro. Se dovesse essere scelto Pence, a quel punto bisognerebbe nominare un candidato vicepresidente. Nella storia degli Stati Uniti è successo solo una volta che un grosso partito abbia dovuto cambiare il proprio candidato vicepresidente a poche settimane dalle elezioni.
«Nel 1972 la convention nazionale dei Democratici nominò come candidato alla vicepresidenza il senatore del Missouri Thomas Eagleton», racconta FiveThirtyEight: «ma Eagleton si ritirò dopo che si venne a sapere che era stato sottoposto a elettroshock per via di una depressione. La leadership del partito allora scelse l’ex ambasciatore in Francia Sargent Shriver per colmare il vuoto», a 19 giorni dalle elezioni. In molti stati sarebbe praticamente impossibile, però, cambiare il nome dei candidati sulla scheda elettorale: senza contare che in diverse parti degli Stati Uniti si sta già votando sia via posta sia nei seggi fisici, ed è probabile che diversi milioni di persone abbiano già espresso la loro preferenza. In quel caso il loro voto sarebbe automaticamente “trasferito” al nuovo candidato del Partito Repubblicano.