Dall’occupazione del Teatro Garibaldi di Palermo all’Ariston di Sanremo il passo è davvero lungo. I palchi e le poltroncine dell’antico teatro che si trova nel quartiere Kalsa hanno fatto da scenario all’incontro artistico e di vita tra Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina. Ovvero il cuore pulsante della band La Rappresentante di Lista. Nome bizzarro legato al fatto che per poter votare fuori sede al referendum abrogativo del 2011 sull’energia nucleare, Veronica entrò a far parte come rappresentante di lista di uno dei vari partiti politici.
Entrambi attori, la sera si ritrovavano a suonare insieme. Lei, toscana, ascoltava il rock, songwriter americani e inglesi. Lui, palermitano, non usciva dai confini nazionali e adorava De André con la Pfm. A unirli fu l’amore per l’opera lirica, la Tosca in particolare. Una passione che il nonno, direttore della banda comunale di Castelvetrano, aveva trasmesso a Dario. Dall’incrocio di queste tendenze musicali nasce l’idea di “musica queer pop”, ovvero una musica fluida, libera dagli schemi di genere, che attinge da più bacini per potersi esprimere. «Musica trasversale o obliqua. Un tempo “queer” era sinonimo di “finocchio”, oggi rimanda alla fluidità», spiega Veronica. «Pop perché abbiamo la necessità di essere popolari, ovvero arrivare a chiunque, infatti utilizziamo un codice che può toccare moltissime persone, fatto però di diversi livelli di complessità, sta poi nel pubblico recepire i differenti strati della canzone».
Frequentano i palchi dell’indie e ancora prima quelli delle birrerie, «ma abbiamo sempre fantasticato sulla possibilità di andare a Sanremo», confessano. «Non saremmo mai caduti nel mainstream, ma abbiamo sempre sperato di diventare mainstream». Bussano due volte al Festival. Ma sono bocciati. Prima da Carlo Conti, poi da Claudio Baglioni. Una porticina si apre soltanto l’anno scorso per partecipare come ospiti, al fianco di Rancore e Dardust, nella serata dei duetti, con Luce di Elisa. Nel frattempo, il loro brano Questo corpo entra nella colonna sonora di The New Pope di Sorrentino, mentre Veronica debutta nella fiction Rai Il cacciatore. «È stata una bella botta. Sorrentino è da sempre un regista attento alle colonne sonore e alle musiche che sceglie per i propri film e serie tv. Noi stessi abbiamo scoperto un sacco di musica grazie a lui. È davvero pazzesco sapere che Sorrentino ci abbia ascoltati e abbia pensato di inserire Questo corpo in quella scena dove la canzone parla al posto dei protagonisti».
Adesso si concretizza il sogno sanremese. Con una canzone che nel titolo sembra voler essere un omaggio al Festival: Amare (come il brano con cui nel 1979 vinse il poi desaparecido Mino Vergnaghi). Ma non lasciatevi ingannare. Parte come una Pausini digitale con l’onnipresente tocco di Dardust, poi la voce di Veronica Lucchesi vola, entra un flauto elettronico e il ritmo si fa pressante, perfetto da ballare, da ascoltare in radio, in piattaforma, nella rete. «Siamo un po’ gli alieni del Festival, ma ci piace questa sensazione», sorride Veronica, citando Alieno, il brano rilasciato alla vigilia del Festival, tratto da My Mamma, quarto lavoro di studio della band in uscita il 5 marzo. «Vogliamo portare uno sguardo e un lessico diverso, ci piacerà incuriosire, dimostrare che esiste altro rispetto a ciò che offrono radio e tv. Con l’ingenuità di un bambino quando approccia mondi insoliti».
Insieme a Veronica e Dario, sul palco ci sarà anche il resto della band: Marta Cannuscio ed Erika Lucchesi, e il venerdì Enrico Lupi e Roberto Calabrese per la serata delle cover. La scelta per LRDL, acronimo della band, è caduta su Splendido Splendente di Donatella Rettore, con la quale sentono di avere moltissime affinità. «La poliedricità, la teatralità. Ed è il modo per far vedere una delle nostre mille facce. Quella sorridente. Perché, citando il poeta siciliano Nino Gennaro, “o si è felici o si è complici”, e noi non vogliamo soccombere allo spaesamento».
Dario e Veronica il teatro lo hanno nel sangue, vengono da quel mondo e a quel mondo appartengono e per questo non possono non schierarsi dalla parte di chi è fermo da un anno, «ed è stato messo da parte». «La cultura è cura, non certo contagio», sostengono. «Chi governa dovrebbe tener conto che attraverso l’arte si riesce a elaborare la crisi, non solo economica, ma anche psicologica. Musica, cinema, teatro sono chiavi di lettura per comprendere e trasformare il dolore».
Il disco che rilasceranno nella settimana del festival porta con sé, nei testi, proprio un certo spaesamento, un malessere personale che ritorna come un filo rosso tra i brani, nei quali le chitarre elettriche si sposano con gli archi e il barocco incontra il synth anni Novanta. «Potremmo definirlo Zeitgeist, lo spirito del tempo che viviamo in questo periodo», sottolinea Dario. «Ed è stato il punto di partenza, in particolare quando abbiamo dovuto annullare per la seconda volta il nostro tour per la pandemia. Un artista, però, deve non solo leggere il presente, ma offrire anche delle possibili visioni. Lo spaesamento c’è, ma in qualche modo è preso in braccio dalla collettività».
Il primo impatto è con la copertina, sulla quale viene citato il celebre dipinto “L’origine du monde” del pittore francese Gustave Courbet, che raffigurò il primo piano di una vulva femminile con riccioli lunghi e neri: «Però nel nostro caso si apre e dentro si intravede lo spazio. L’ha realizzata l’artista palermitana Manuela Di Pisa, con la quale lavoriamo da tempo. Ha ascoltato tutto il disco e ci ha proposto questa immagine». Il loro progetto è ricco e complesso. La band pensa di ampliare il proprio orizzonte con l’aiuto di altri artisti: «Esiste un sogno nel cassetto, quello di un polo multidisciplinare, uno spazio a vetrate dove chi passa può vedere quello che accade dentro, un luogo in cui far crescere la comunità attorno a noi. Ci piace l’idea della factory, abbiamo uno studio a Palermo dove passano tutti, registi, attori, musicisti, dove le cose possono accadere». Per ora la comunità che li ha accolti è quella della Numero Uno, la storica etichetta di Mogol e Battisti che è da poco rinata.
Dall’interrogativo su sguardo e femminilità, attraverso i linguaggi pop di artisti come Tom Wesselmann, fino alle lotte femministe contemporanee, la cover raffigura a pieno l’attitudine artistica e politica della band. «Rimanda all’erotismo, alla femminilità, alla voglia di provocare e di far riflettere. E allo spazio: la nostra è una musica che non conosce confini». My Mamma è un manifesto femminista. «Per lungo tempo non ci siamo sentiti rappresentati dai testi delle canzoni che ci giravano intorno. Con un coro, più da corteo che da tragedia greca, di amiche, mamme e non, abbiamo messo in musica, per dirla, con un verso del pezzo, il sogno di una vera lotta», sostiene Veronica Lucchesi. E Dario aggiunge: «Crediamo che la donna, nell’epoca del tramonto del maschio, sia l’unico vero corpo politico della musica. La voce femminile può avere questo potere, può portare un’altra visione perché racconta un disagio e può sfogare con il canto millenni di patriarcato».
In My Mamma, che in italiano assume il doppio significato di “Mai mamma”, e ancor più nel pezzo Oh ma oh pa, si parla dell’eredità che ci lasciano i genitori. «Che mondo ci hanno preparato? Che mondo prepareremo noi a chi verrà dopo, figli o meno? Siamo diventati quello che siamo perché i nostri genitori… O no? È un discorso sulla maternità, sulla paternità, sul femminile, sul maschile…», dice Veronica. «L’album parla di crescita, di silenzi, di riflessioni sulla vita e sulla morte, di pagine bianche che vengono riempite e in cui, ognuno che ascolta, può leggere ciò che vuole. Una volta pubblicate le canzoni non sono più nostre, diventano di chi le ascolta e di chi può trovarci significati che non avevamo immaginato».