Da 70 anni l’Italia si appassiona al Festival di Sanremo, gara canora che non ha eguali al mondo, ancorata a una realtà provinciale da sagra paesana. Che pensa ancora alla musica come voce di una piccola provincia del mondo, piuttosto che come cittadina del mondo. Una manifestazione local, lontana dall’era global. Simbolo di un’Italia che non cresce. Un evento che, tuttavia, coinvolge l’intera industria musicale italiana, una media di dieci milioni di telespettatori (47,5% di share), tutti i mass media nazionali. Che ha prodotto quasi duemila canzoni ed ha visto alternarsi sul palcoscenico oltre un migliaio di cantanti e cinquantotto conduttori. Che resuscita atmosfere antiche, sapori tradizionali, passioni, sentimenti, polemiche, che il mondo virtuale tende ad appiattire. Che riscopre l’amarcord in un’epoca che ha accelerato i tempi di attenzione e accorciato la memoria. Uno spettacolo che da 70 anni ripete un format rimasto, tutto sommato, sempre lo stesso. Come i cibi riscaldati ai raggi infrarossi, le canzoni strombazzate, le scenografie dilatate, l’immane orchestra, le pettinature fulgenti, le scollature o le farfalline stile “Colpo Grosso”, il gesticolare melodrammatico, gli scuotimenti sentimentali, le grida, gli sberleffi, i saltelli, gli acuti, i mormorii, gli sguardi birichini o assassini, si amalgamano insieme, con lo stesso odore e sapore rassicurante, fatto di nulla.
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La prima edizione fu nel 1951, quando il presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi ed esisteva ancora un ministero per l’Africa italiana. «Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate!» esclamò il palermitano Nunzio Filogamo la sera del 29 gennaio 1951, aprendo il primo Festival della canzone italiana. Dirigeva Cinico Angelini e c’erano solo tre interpreti, Nilla Pizzi, Achille Togliani e il duo Fasano, per venti canzoni scelte tra le duecento pervenute, poi ridotte a dieci nella serata finale nella quale fu scelta “Grazie dei fior”, e sottolineiamo “fior”, come si usava allora per dare al testo una inutile sembianza aulica. Era poca cosa, praticamente un affare di famiglia, affidato in toto all’orchestra Angelini che aveva i “suoi” cantanti. Nessuno allora, neanche il più ottimista e fantasioso degli organizzatori, avrebbe mai potuto immaginare di aver messo in moto un meccanismo perverso e inarrestabile che, attraverso vicissitudini di ogni genere, altezze gloriose e vergognose bassezze, sarebbe arrivato in pompa magna fino a spegnere 70 candeline.
Per un po’ il Festival rimase lì, tra i tavoli da gioco, sottotono. Basti pensare che fino alla terza edizione del 1953 sui giornali apparvero al massimo delle notiziole in cronaca. Ma già la radio e poi la televisione fecero sì che nel giro di poco tempo la festicciola canora esplodesse, con tutto il fragore che sappiamo. È il 1955 il primo anno in cui il Festival viene ripreso dalle telecamere. A guardarlo sono otto milioni di italiani, cifra enorme considerando l’allora scarsa diffusione di quello che era ancora considerato un oggetto misterioso. Non solo. Fin dal primo anno la tivù fece da protagonista anche nelle vicende interne del Festival. Introdusse la necessità di curare il look, di badare alla “spettacolarizzazione” del pezzo, e soprattutto produsse il suo primo grande trucco nel momento fatidico: nella serata finale, quando toccò a Claudio Villa e alla sua “Buongiorno tristezza”, si scoprì che Claudio Villa era asserragliato in albergo a causa di una presunta laringite (la cui veridicità è stata poi messa in dubbio) e non intendeva presentarsi sul palco. Il regista della prima diretta sanremese della storia pensò bene di inquadrare al centro del palco il giradischi che mandava la canzone, con un effetto drammatico che secondo alcuni si rivelò determinante per la vittoria. La televisione entra così, con la sua abituale prepotenza, nel Dna del Festival. Che diventa evento nazional-popolare, nel senso gramsciano-borgnano (da Gianni Borgna, il comunista che sdoganò il Festival). L’unità d’Italia l’hanno fatta “Lascia o raddoppia?” e il Festival di Sanremo. Anche Pippo Baudo, Ricchi e Poveri, Toto Cutugno e Al Bano e Romina sono parte dell’identità nazionale.
Altro elemento del Dna di Sanremo sono gli scandali e le polemiche («il sale del Festival» sostiene Pippo Baudo). Cominciano da subito, anche perché a quei tempi ci voleva poco. Fanno scandalo, o forse solo curiosità, le voci sugli intrecci d’amore dei primi protagonisti, Nilla Pizzi, Angelini (che si diceva avesse tra le cantanti delle sue “favorite”), Gino Latilla, Achille Togliani, Carla Boni. Fa scandalo la vittoria di Villa nel 1955, e quella della sconosciuta debuttante (tipo Jalisse) Franca Raimondi. Ma a creare il vero primo scandalo del festival fu una delle migliori cantanti che abbiano calcato il famigerato palcoscenico: Jula De Palma. Sofisticata, educata al jazz, la De Palma riuscì, pur essendo una vocalista di grande valore, a conquistare una discreta popolarità. Ma al festival del 1959 ebbe l’ardire di cantare “Tua”, con dei “bollenti” versi che recitavano terribili affermazioni del tipo: “Tua, tra le braccia tue, solamente tua, così”. Incredibile a dirsi ma, benché premiata dalla giuria (quarto posto) e dal pubblico, la Rai ritenne che l’avesse cantata con troppo realismo, e per di più con un negligée (era in realtà un castissimo e sobrio vestito), e ne proibì la messa in onda alla radio. Poi ci fu lo “scandaloso” playback di Bobby Solo che si presentò nel 1964 a cantare “Una lacrima sul viso” con gli occhi bistrati di nero. La tragedia tinta di giallo del suicidio di Luigi Tenco nella camera d’albergo dopo che la sua canzone “Ciao amore, ciao” (cantata in coppia con la sua amante Dalida) era stata bocciata per promuovere canzoni di basso livello come “Io, tu e le rose” e “La rivoluzione”. Nel 1968, mentre in Italia si consumavano ben altre battaglie, il Festival fu teatro di una furibonda lite (tuttora irrisolta) tra Celentano e Don Backy. Il caso Vasco Rossi nel 1983 per la sua “Vita spericolata”, interpretata come inno alla autodistruzione e alla droga. Il resto è costume, dalla spallina che, nel 1987, scivolando dalla spalla di Patsy Kensit, fece intravedere il suo candido seno, alla pancia finta di Loredana Berté, fino alle mutande in evidenza di Anna Oxa.
Eppure, nel Dna di Sanremo, resta ancora qualche traccia di canzone. Sebbene, nella gran parte dei casi, le belle canzoni qui non abbiano mai avuto fortuna, c’è una gloriosa eccezione che ancora oggi viene citata in continuazione come spartiacque tra antico e moderno, come la fine dell’Italia contadina e provinciale degli anni Cinquanta e l’imminente avvento del boom economico. Parliamo di “Nel blu dipinto di blu”, meglio nota come “Volare”, che arrivò al Festival del 1958 come una bomba, trascinata da quell’immagine straordinaria di Modugno che la cantava con lo smoking bianco, le braccia allargate come a voler abbracciare tutto il pubblico e la faccia radiosa di ragazzo del sud che ha visto il paradiso. In quel caso la miglior canzone fu anche la canzone vincitrice.
C’è un prima di “Volare”, ovvero la fase che tra vecchi scarponi e mamme languide arriva dalle origini al 1958, e un dopo, una fase intermedia che dura fino al 1963, nella quale si registrano i primi sussulti di modernizzazione, tra bolle e profluvi di baci in chiave rock’n’roll. Dal 1964, con l’arrivo degli stranieri, parte l’ultima e forse più gloriosa fase di tutta la storia festivaliera. È la stagione delle grandi canzoni, l’apice di una reale corrispondenza tra il festival e le vicende della musica, che poi si è persa inesorabilmente. È l’epoca dei Bobby Solo, Dalla, Battisti, Giganti, Celentano, e tantissimi altri. Una fase che inizia a spegnersi nel 1971 con la vittoria di “Il cuore è uno zingaro”. Poi il grande buio, il sonno che lascia Sanremo a continuare stentatamente la sua esistenza. Tutti lo davano per spacciato e i media avevano deciso di ignorarlo. Ma accadde l’impossibile. Nel 1980, l’anno in cui finalmente vince Toto Cutugno – sarà la prima e l’ultima volta – arriva Roberto Benigni a scuotere la platea lanciando i suoi celebri “Wojtylaccio” e “Cossigaccio”. È l’inizio della resurrezione. Sulla scia di Benigni arrivarono tutti i migliori comici, i Grillo, il Trio. E nel 1985 arrivarono anche i metalmeccanici, che Pippo Baudo con magistrale astuzia fece salire sul palco. E fu lo stesso Baudo a gestire un altro incredibile colpo di scena. Il reuccio Claudio Villa, che da anni protestava invano contro il Festival che l’aveva escluso, decretò il trionfo della nemesi, morendo proprio il sabato della finale del Festival del 1987. Calava definitivamente il sipario su un’epoca. il Festival della canzone italiana diventa l’Evento Unico Nazionale.
Ciclicamente data per morta, la manifestazione canora continua anno dopo anno a calamitare l’attenzione di artisti, commentatori, media e di una parte considerevole di italiani, almeno nella settimana del suo svolgimento. Sino ai nuovi record di ascolti toccati negli ultimi anni dalle tre edizioni di Carlo Conti e poi dalle due di Claudio Baglioni nell’era della televisione 2.0. Oggi il festival per la Rai vale come un Superbowl, campione di spettatori e di incassi, in grado – se va bene – di salvare ascolti e stagione. La musica, da tempo, segue altre strade che passano lontane da Sanremo, ma gli italiani (anche se dicono il contrario) continuano a vedere il Festival di Sanremo. Anzi lo si stravede, lo si carica di tensione e di una simbologia incandescente: è meglio dell’Italia, è peggio, riflette il Paese, ne è il riflesso? I media sembrano surriscaldarsi, quasi la manifestazione si debba necessariamente risolvere in un regolamento di conti con i grandi problemi esistenziali o politici che affliggono gli italiani.