Pittsburgh o qualche città del genere, inizio 1941. In un ristorante della città alcuni uomini stanno cenando; nell’atmosfera rilassata e conviviale, è il più giovane di loro a tenere banco, un appena venticinquenne Orson Welles. L’attore e regista ha appena tenuto una conferenza ed è seduto al tavolo con amici, quando un cameriere si avvicina e lo avvisa che un uomo vuole parlargli; un investigatore della polizia, per la precisione. Il dialogo tra Welles e il poliziotto è secco e breve: «Non torni nel suo albergo. Sono della polizia. Non le dirò il mio nome». «Perché no?» risponde Welles, con un tono che non riesce a sembrare preoccupato. «Le do solo un consiglio» – l’investigatore si guarda intorno, poi decide di rivelare di più – «nella sua stanza ci sono una quattordicenne chiusa nell’armadio e due operatori che la aspettano con le macchine da presa».
Orson Welles non saprà mai chi fosse il poliziotto, come avesse saputo della macchinazione e perché avesse deciso di rivelarla; così come non saprà mai cosa sia stato della giovane e degli operatori, né tantomeno se quella storia fosse vera. In albergo, Welles, non tornò mai. Quello che sappiamo, però, è che con ogni probabilità se la trappola fosse andata a buon fine, oggi non esisterebbe il film più importante della storia del cinema: Quarto Potere.
Siamo di fronte a un vero e proprio colosso della cinematografia, un film imprescindibile che ha fatto versare i proverbiali fiumi d’inchiostro e che non manca mai in nessuna classifica delle opere più importanti della Settima Arte. Ma perché aleggiava quel terribile clima attorno a Quarto Potere, proprio nei giorni precedenti alla sua distribuzione? La motivazione è semplice: William Randolph Hearst. Orson Welles, per la sua opera prima, aveva identificato come bersaglio il nascente strapotere dei media – i giornali in particolare – tratteggiando la storia di Charles Foster Kane, quel magnate della stampa, interpretato da Welles stesso e ricalcato palesemente sulla figura dell’editore, imprenditore e politico statunitense. Le leggende più o meno attendibili riportano di spie sul set del film, della casa di distribuzione che avrebbe voluto distruggerlo e impedirne l’uscita e, soprattutto, di un boicottaggio dello stesso Hearst che condannò il titolo all’insuccesso, almeno inizialmente. Il magnate offrì dapprima alla RKO – la casa di produzione del film – 800.000 dollari per evitarne l’uscita; fallito il tentativo, impedì ai giornali di sua proprietà non solo di recensire l’opera ma anche di nominarla. L’insuccesso, seppure meno clamoroso di quanto si pensi, fu dovuto soprattutto a ciò.
Il giovane Welles nel 1940 era il personaggio più chiacchierato dello showbiz. Attore, autore, drammaturgo, regista radiofonico e di teatro, istrione ed enfant prodige al tempo stesso, era arrivato a costituire una compagnia di produzione teatrale interamente sua – la Mercury Theatre – pur di poter fare tutto a modo proprio. Appena due anni prima, era balzato agli onori della cronaca per la messa in scena radiofonica de La guerra dei mondi di H. G. Wells; non stiamo qui a rievocare la celeberrima vicenda, col regista impegnato a mettere in atto una versione realistica a tal punto da far credere a molti incauti ascoltatori che il paese fosse stato davvero invaso dagli alieni. Se la vicenda lo mise inizialmente in cattiva luce, finì poi invece per farne un giovane provocatore anarchico e, alle lunghe, il mondo avrebbe ricordato solo il grande clamore della vicenda e la sua popolarità ne sarebbe venuta fuori decuplicata. Alexander Woolcott, il suo capo nell’avventura radiofonica, reagì con un telegramma che Welles fece orgogliosamente incorniciare: “Questo prova soltanto, caro il mio ragazzo d’oro, che tutte le persone intelligenti ascoltavano un cretino, e tutti i cretini ascoltavano te”.
«Non sarà sembrato che dicessi che il teatro è finito, vero? Ci sono dei grandi artisti che continuano a lavorarci, ma non è più collegato alla centrale elettrica principale. Il teatro resiste come un divino anacronismo; come l’opera lirica e il balletto classico. Un’arte che è rappresentazione più che creazione, una fonte di gioia e di meraviglia, ma non una cosa del presente». Così dichiarò Orson Welles a proposito del teatro, l’espressione artistica che gli permise di farsi conoscere e di progettare il passo che più gli stava a cuore, il grande salto nel mondo della celluloide. Chiunque, al tempo, pensasse di avere qualcosa da dire – e Welles, forte del suo enorme talento e di un ego di pari stazza, ne era ben convinto – avrebbe sicuramente dovuto farlo attraverso la Settima Arte. Il teatro, per il regista, era ormai solo rappresentazione, magnifica ma lontana dagli argomenti d’attualità. Il cinema, invece, per dirlo con parole sue, “era la cosa da fare”. La gavetta nel teatro e la fama – positiva o meno – che gli venne dalla radio, gli schiusero le porte e lo fecero con il fragore assordante del più vantaggioso contratto mai offerto da uno studio.
La RKO, garantendogli assoluta libertà artistica, accettò praticamente tutte le condizioni del regista, proponendo un contratto per tre film, 50mila dollari immediatamente e il 20% degli incassi lordi al box-office. Da creativo bulimico, quale era, si gettò subito anima e corpo in una serie di progetti che – una vera costante nella carriera del genio – finirono per naufragare: il primo fu il film ispirato a Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, poi toccò a un altro intitolato Smiler With A Knife. Alla fine optò per un soggetto originale totalmente pensato, scritto, diretto e interpretato da lui: Citizen Kane o – nella traduzione italiana – Quarto Potere. La trama è semplice – la vicenda del magnate Kane, tra vertiginosa ascesa sociale e altrettanto ripida discesa agli inferi – ma il modo in cui viene restituita tecnicamente è quanto di più complesso si sia mai visto a quel tempo.
Se, sul fronte tecnico, si circonda del meglio su piazza – Bernard Herrmann alla musica e Gregg Toland alla fotografia – per il cast impone alla RKO gran parte degli attori scoperti a teatro con la Mercury. La messa in scena è rivoluzionaria: la tecnica del flashback, all’epoca usata di rado e spesso solo in qualche breve scena finale, irrompe prepotentemente al cinema. Tutta la trama è, infatti, fondata e costruita su questo artificio: ben sei lunghi flashback che raccontano la gloria e le miserie di Kane, partendo dalla celebre battuta “Rosebud”, in un gioco di scatole cinesi che segnerà molti capolavori degli anni a seguire (da Rashomon di Kurosawa a Rapina a mano armata di Kubrick, fino a Le Iene di Tarantino, tutti devono qualcosa al capostipite del 1941). L’uso della fotografia e delle musiche lo è altrettanto, ma il vero elemento copernicano risiede nella rutilante regia e nell’utilizzo virtuosistico della macchina da presa. Ogni inquadratura sembra studiata per stupire e per abbattere quella parete invisibile che la separa dallo spettatore; per prendere le doverose distanze dal teatro, Welles decide di riprendere spesso dal basso, mostrando per la prima volta i soffitti, e poi carrellate, zoom, obiettivi grandangolari.
Quarto Potere è una gioia per gli occhi e un trattato di cinematografia. «Appartengo a una generazione di cineasti che hanno deciso di fare film avendo visto Quarto potere» – è la celebre frase di François Truffaut che riassume al meglio l’atteggiamento di molti autori riguardo questo capolavoro e la sua necessaria indispensabile essenza. Riguardo alla tecnica del film è suggestivo leggere come la pensava lo stesso Welles: «Qualche volta, in Quarto Potere, è come se l’immagine fosse sottoposta a uno sforzo eccessivo. Viene dall’esuberanza che mi dava la scoperta del mezzo; quando ti ci abitui, e impari a nuotare, non hai più bisogno di gonfiare tanto i muscoli».
Circa la sua capacità visionaria di piazzare la macchina da presa, l’autore si sentiva affine a un altro maestro coevo, Alfred Hitchcock: «Credo di avere in comune con Hitchcock la capacità di dire che obiettivo vada montato e dove va piazzata la macchina da presa senza consultare un mirino o controllare l’inquadratura. Posso sbagliarmi di grosso, ma ho una sicurezza che niente può scuotere» – che, in definitiva, è anche una bella descrizione del genio puro e, talvolta, arrogante. Nonostante ciò, la pellicola definita da Borges un “giallo metafisico” ebbe anche critiche avverse. Sartre l’avrebbe definita “ridondante e barocca”, mentre Ingmar Bergman la liquidò con una battuta: «Una noia mortale». E Quarto Potere si rivelò anche un ostacolo insormontabile per lo stesso Welles. Il solo fatto di essere definito ancora oggi il più importante film della storia implica in sé l’ovvia conclusione che quella fosse anche l’opera insuperabile per il regista. Se si considera poi il fatto che si trattava di un debutto, il giudizio sul prosieguo della carriera del genio di Kenosha appare tracciato.
Eppure un’opera così fondamentale per la storia del cinema corse il rischio di non vedere la luce: «ce la cavammo per il rotto della cuffia – raccontò Welles – il film non venne bruciato solo perché lasciai cadere un rosario. Si tenne una proiezione per Joe Breen, allora capo della censura, per decidere se dovevano bruciarlo o no. Dicevano tutti: “Non ci mettiamo nei guai, che lo si bruci, che sarà mai?”. Allora io presi un rosario, me lo misi in tasca e, finita la proiezione, davanti a Joe Breen che era un buon cattolico, lo feci cadere a terra dicendo “oh, scusi”, lo raccolsi e lo rimisi in tasca. Se non lo avessi fatto, forse Quarto Potere non sarebbe esistito».