È interessante notare le conseguenze sociali di un fenomeno come quello del coronavirus: il fatto che la prima vittima sia la cultura. Siamo di fronte a un pericolo invisibile, che rende qualsiasi altro essere umano un possibile nemico. La diretta conseguenza è l’eliminazione di tutto ciò che di più umano abbiamo: l’arte, le varie forme di espressione, la socialità, il contatto. Si chiudono i cinema, le uscite dei film sono rimandate, gli spettacoli e i concerti annullati, il calcio si guarda in tv in diretta da stadi a porte chiuse.
Tutto questo alimenta la psicosi collettiva, il terrore dell’altro. Si incoraggia quell’immagine del resto del mondo come un ammasso di possibili untori da cui stare lontani. Si blocca così la parte più pura della natura umana, che proprio in quelle forme di arte e in quella convivenza civile, in quella condivisione di esperienze si manifesta. Se ho paura dell’altro perché dovei interessarmi a ciò che ha da dire, alla sua creatività, perché dovrei condividere con lui le mie emozioni? D’altro canto, ci si chiude in quell’individualità dannosa, che si manifesta come xenofobia, razzismo, nazionalismo, chiusura. È il terreno più fertile per fake news che alimentano la psicosi, si diffida di tutti coloro che cercano di rassicurare, preferendovi i peggiori catastrofismi. Non mancano ambiziosi complottismi, accuse, diffidenze. I medici che cercano di rassicurare e ridimensionare la portata del virus vengono ignorati, mentre altre notizie con fonti meno affidabili sono condivise e supportate. Merito anche dei social, che ci hanno abituati a una comunicazione rapida e incontrollata, che permette a tutti di esprimersi senza un’adeguata selezione e senza controlli. Quando il coronavirus è diventato l’argomento di tendenza del momento siamo stati bombardati da notizie, aggiornamenti, articoli e meme in modo così martellante da amplificare a dismisura la portata del fenomeno.
Ma addossare tutta la colpa ai social media significherebbe sminuire il fenomeno. La tendenza a reagire a un momento di paura o di disagio isolandosi è insita nella natura umana. L’uomo è un “animale sociale”, come diceva Aristotele, eppure da sempre la sua strategia autodifensiva principale è fuggire da tutti e chiudersi in sé stesso. Eppure, questo isolamento non rappresenta quasi mai una soluzione. Ne abbiamo numerose conferme nella letteratura. Dante racconta di quando, non ottenendo il saluto di Beatrice, reagisce chiudendosi in casa: qui, solo col suo dolore, può sognare e immaginare la donna amata, scrivendo sonetti in cui racconta la sua esperienza. Allo stesso modo Petrarca fugge dalla folla quando viene assalito dal suo tipico senso di accidia: vaga immerso nella natura, meditando nei “più deserti campi”, su monti o presso le acque di un ruscello, discutendo da solo, nascondendo il proprio dolore al resto degli uomini. Ma per nessuno dei due grandi poeti questa rappresenta la soluzione definitiva al dolore.
Manzoni non l’aveva vissuta, la peste, ma aveva studiato documenti su documenti. E allora descrive la follia, la psicosi, le teorie assurde sulla sua origine, sui rimedi. Descrive la scena di uno straniero (un “turista”) a Milano che tocca un muro del Duomo e viene linciato dalla folla perché accusato di diffondere il morbo. Ma c’è una cosa che Manzoni descrive bene, soprattutto, e che riprende da Boccaccio: il momento di prova, il discrimine, tra umanità e disumanità. Boccaccio sì che l’aveva vista, la peste, quella che aveva colpito Firenze nel 1348. Aveva visto amici, persone amate, parenti, anche suo padre, morire.
E Boccaccio spiega che l’effetto più terribile della peste etra la distruzione del vivere civile. Perché il vicino inizia ad odiare il vicino, il fratello inizia a odiare il fratello, e persino i figli abbandonano i genitori. La peste metteva gli uomini l’uno contro l’altro. Lui rispondeva col Decameron, il più grande inno alla vita e alla buona civiltà. Manzoni rispondeva con la fede e la cultura, che non evitano i guai ma, diceva, insegnano come affrontarli. In generale, entrambi rispondevano in modo simile: invitando a essere uomini, a restare umani, quando il mondo impazzisce. Ogni forma di collettività veniva interrotta, le regole basilari della convivenza civile venivano ignorate, ogni forma di rituale abbandonata, il rispetto viene totalmente soppiantato dalla diffidenza. In questo clima teso e instabile, Boccaccio individua la soluzione in una opposizione all’isolamento: la “allegra brigata” si riunisce, lontana dalla città, ma unita al suo interno. La loro piccola comunità ha il compito di mantenere l’umanità viva, di ricreare una società ideale che sappia sopravvivere. E la loro attività principale è quella di raccontare novelle, un passatempo creativo e colto, che mantenga vivo il ricordo di tutti quei valori che la peste ha velocemente eliminato. Un messaggio attualissimo in questa psicosi da Coronavirus.
Se la Cultura è la prima vittima quando c’è un clima teso, di paura, è sempre la Cultura la prima a rinascere quando poi bisogna ricostruire. Era così per l’allegra brigata del Decameron, è così ogni volta che le raccolte fondi si basano su concerti o spettacoli. Il Live Aid di Bob Geldof, tutti i concerti organizzati per sostenere le ricostruzioni di città colpite da catastrofi naturali, gli eventi di beneficenza. L’umanità trova sempre il modo di risollevarsi, di ritrovarsi. Quando la paura si supera, si ritorna sempre a riconoscersi come collettività, e il potere dell’Arte, in tutte le sue forme, è quello di dar voce a questo organismo. Permette di condividere emozioni che riscopriamo universali, che ci uniscono, che rendono assurda tutta quella diffidenza e rendono così fredde le stanze isolate. Ne siamo sicuri: i cinema e i teatri riapriranno presto, ci ritroveremo nelle sale per poi commentare insieme. Ci ritroveremo sotto gli stessi palchi e agli stessi eventi, senza mascherine e senza paure. L’Arte è un paziente che guarisce sempre.