«Ho ucciso il signor Villette». Agli inizi degli anni ’50 la critica francese e la Nouvelle Vague celebrano Io Confesso come un capolavoro di Hitchcock, uno dei più seri e personali, intriso com’è della rigida educazione cattolica che il regista aveva ricevuto presso i gesuiti. Padre Logan è un prete alle prese con il dovere di mantenere il segreto della confessione (di un delitto) pur nella consapevolezza che, rivelando la verità, si metterebbe al riparo dall’essere personalmente e ingiustamente sospettato di un omicidio.
Un caso di coscienza sul filo del rasoio che Hitchcock fa esplodere in tutta la sua drammaticità, conducendo per mano lo spettatore verso l’insopportabile condizione di chi conosce il colpevole e la sua confessione ma, in base ai voti fatti, non può rivelarlo (reticenza, tra l’altro, non perfettamente compresa dalla maggioranza non cattolica del pubblico). Il suo unico alibi, poi, è una donna, la cui reputazione finirebbe rovinata. La crisi dovuta all’impossibilità di denunciare il vero colpevole, sottolineata dall’imponenza visiva delle chiese, si sovrappone a quella umana, dovuta alla scelta di una vita sacerdotale fatta senza troppa convinzione dopo una delusione amorosa. Non potendo tradire un sentimento, né un sacramento, padre Logan soggiace ai dogmi di un’istituzione che ama, al peso e al tormento di un segreto che lo dilania e ne dilania la coscienza, ritrovandosi ad affrontare – in questa simbolica Via Crucis – anche l’opinione pubblica, ottusa e bestiale come solo il regista sa renderla.
La trovata è quella tipica di Hitchcock, rivoluzionaria: Nos Deux Consciences, opera teatrale di Paul Anthelme ossia Raymond Borg, letterato di fine Ottocento, lo aveva ossessionato sin da quando la vide in scena a Londra per la prima volta negli anni ’30. Ciò che ovviamente lo aveva intrigato era la situazione di fondo e ne provò tutte le possibili varianti nelle diverse versioni della sceneggiatura. In un primo momento, decise che il presbitero avrebbe avuto un più diretto legame con l’omicidio, commesso per eliminare un ricattatore a conoscenza di una sua relazione con la moglie di un influente politico, e che, prima di prendere i voti, il prelato aveva avuto un figlio illegittimo. Come emerge dalla corrispondenza tra Joseph Breen, ai vertici della produzione, il censore capo e Hithcock, lo stesso Breen aveva ricevuto la medesima educazione gesuita ed era molto sensibile a quello sguardo rivelatore del protagonista, che tradisce il segreto confessionale e il conflitto interiore, spirituale e morale tra giustizia e verità. Davanti al rifiuto della censura, il regista dovette da subito rinunciare all’idea del figlio illegittimo e della tragica morte di padre Logan. Ma resta l’impianto architettonico con cui il regista ama scavare la psiche dei suoi protagonisti, lacerata dal rimorso; resta il tema ossessivo della ricerca della verità, ostacolata da ogni tipo di incidente o di costrizione; resta il modo, assolutamente unico, di far scaturire inquietitudine dallo schermo.
Io Confesso è quasi una prova per Il ladro, film ben più cupo che pure racconta di un uomo falsamente accusato, salvato soltanto – e soltanto in parte – dalla macchina della giustizia quando alla fine il colpevole viene catturato e confessa. Girato in Quebec, le riprese sono scure e le location reali, molto più di quanto Hitchcock avesse mai fatto prima; l’ambientazione noir richiama quella di una città europea ma calata nel nuovo mondo, con strade acciottolate e vecchi edifici, accreditando quel contesto pieno di chiaroscuri come autentico co-protagonista del dramma. Iconica la sequenza iniziale con quel riuscitissimo espediente che è il susseguirsi di segnali di senso unico, tutti rapidamente indirizzati al luogo del delitto: una semplice idea visiva che, come tutto il lungometraggio, restituisce un palpabile piacere visivo.
Protagonista è uno dei migliori attori americani, Montgomery Clift, che si era fatto notare in Odissea tragica con Fred Zinnemann e fu anche il primo tra gli attori del cosiddetto “metodo”, anticipando, di fatto, Marlon Brando e Jimmy Dean con la sua introspezione e il suo modo di recitare. Cosa chiedere di più di uno dei più bei divi del cinema in uno dei suoi primi film? Superbo e misurato, tra l’altro, anche nel cogliere alla perfezione l’ambivalenza del personaggio, che prima della guerra intratteneva una relazione con Anne Baxter, salvo poi subire un eccezionale cambiamento mai del tutto definito. Lei, invece, come nella migliore tradizione drammatica, non cessa mai di amarlo sebbene sia sposata con un altro. Se Hithcock affermava che i brutti film sono fotografie di gente che parla, i suoi sono invece la fotografia di gente che pensa: a Clift basta l’espressività dei suoi magnetici e inconfondibili occhi, capaci in ogni momento di rivelarne pensieri, sentimenti, emozioni. Senza di lui, il suo volto, la sua gestualità, la sua devozione, la sua espressione di allucinata dignità e il suo romanticismo, il film ne uscirebbe senz’altro impoverito e comunque meno suggestivo.
Nel finale, straordinaria la prova d’attore del tedesco O.E. Hasse, sagrestano tedesco tuttofare e senza terra, alle prese con il definitivo confronto con il suo “accusatore”, mentre sul suo volto scorrono tutte le sfumature dei suoi stati d’animo: l’odio, la cattiveria, la vigliaccheria, che poco per volta si tramutano in paura, rimorso, redenzione. Furono necessarie, invece, circa quattro ore per riprendere Clift che camminava nella sua direzione, perché l’attore doveva “riflettere” o ottenere l’approvazione della sua insegnante Mira Rostova. Hitchcock, dal canto suo, non voleva avere a che fare con il “metodo” e, quando a un certo punto chiese a Clift di alzare lo sguardo uscendo dal tribunale perché voleva inquadrare le finestre, l’attore rispose che non sapeva se il personaggio si sarebbe davvero comportato in quel modo, scatenando ovviamente le ire del regista. Il punto di vista, per Hitchcock, era molto più che un banale esercizio di stile: inquadrava la persona, ciò che vede, la reazione. Puro cinema, diceva.
Anche qui l’uso del flashback è come il falso in Paura in palcoscenico: un tuffo nel passato, alla storia di come padre Logan ebbe una relazione, prima di prendere i voti, con una donna che non lo ha mai dimenticato. Lui, invece, lo ha fatto e l’espediente narrativo è presentato tutto secondo il punto di vista di lei, con uno romanticismo fatto di lacrime e sguardi languidi di certo non comune ai film del “maestro del brivido”.
Truffaut ha correttamente rilevato che quel tipo di stile sognante, come da romanzo, della rievocazione amorosa potesse funzionare anche da falso, in quanto tralascia la gran parte di quel che accade a Logan, a partire dalla sua decisione di vestire la tunica. Raccontato, quindi, dal punto di vista di un’ingenua donna sentimentale, con l’uso del rallentatore, quando lei incontra Clift scendendo le scale, il regista ne accentua la poesia, sugellata da un insolito romantico abbraccio. C’è anche l’interessante rapporto tra il protagonista e il detective impersonato dall’attore newyorchese Karl Malden: un uomo di fede, da un lato, e un uomo della ragione, dall’altro, che sta cercando, quest’ultimo, di risolvere razionalmente il delitto. Un rapporto esplorato accuratamente, mai apertamente ma in modo implicito. L’ispettore Larrue è un tecnocrate – che va dritto per la propria strada – tra i rari poliziotti lucidi e intuitivi della filmografia di Hitchcock. Significativo, poi, che il nome della moglie dell’omicida (che lo denuncia) sia Alma: la interpreta Dolly Haas, una delle grandi attrici del cinema tedesco, che rinunciò alla carriera per sposare il caricaturista Hirschfeld del New York Times.
Io confesso è puro Hitch, magistralmente elaborato: la colpa trasmessa (Delitto per Delitto), l’innocente alla sbarra (L’altro uomo), l’incedere artificioso ma emozionante del racconto, i colpi di scena, l’estro geometrico in inquadrature e nell’organizzazione delle sequenze. Si fatica, semmai, ad accettare un intero dramma fondato sul segreto della confessione e su inestricabili quesiti di ordine etico che diluiscono e sacrificano parzialmente l’azione e la suspense. Se non è l’Hitchcock più famoso o riuscito è forse quello più attuale: la “gogna mediatica”, il pubblico dileggio, le inutili speculazioni sulla vita privata dell’imputato richiamano certi casi di cronaca odierna. Malgrado l’assassino sia mostrato sin dalle prime battute, l’atmosfera da thriller dell’anima ricco di simbologia prevale su quella del dramma. Lo spettatore è coinvolto in un vortice di tensione che lo porta, alla fine, a solidarizzare col protagonista che sa essere ingiustamente accusato. Presentato in concorso al Festival di Cannes, con la migliore delle fotografie del bianco e nero (Robert Burks) fatta di luci e ombre, Io confesso resta uno dei film di Hitchcock visivamente più belli e ricercati dal punto di vista formale, a partire dal modo in cui trasforma il marmo, le nuvole, il cemento, scena dopo scena, in immagini. Che esprimono l’anima, come oggi nessuno riesce più a fare.