Il mio primo incontro con Mahmud Darwish (letterario s’intende!) risale ad alcuni anni fa: ero stato invitato a un dibattito sulla Palestina e lì furono letti pubblicamente dei suoi versi. Li percepii subito come espressione di una poesia autentica, semplice, comprensibile a tutti, ma anche altamente immaginifica, come sintesi insomma di un modo di scrivere che sapeva coniugare una tradizione antichissima con la modernità e l’attualità. Da allora non avevo avuto modo di leggere più nulla di lui, e invano avevo tentato di procurarmi altri suoi scritti. Preso da altri interessi me ne ero del tutto dimenticato fino all’altro giorno, quando per puro caso con grande gioia ho notato in libreria un suo inedito, Inni universali di pace dalla Palestina – Elogio dell’ombra alta, in cui fa memoria dell’invasione di Beirut e del massacro compiuto dagli israeliani.
Mahmud Darwish, sebbene sia considerato il più grande poeta arabo moderno, è poco noto al grande pubblico, forse per le sue origini palestinesi. Saramago aveva intuito la sua grandezza e lo aveva definito il “poeta più grande del mondo”. Non so dire se avesse torto o ragione, ma certamente la sua produzione letteraria non può essere ignorata o semplicemente circoscritta solo al mondo arabo, in quanto ha una valenza molto più ampia. La sua lirica, anche se di ispirazione civile, va ben oltre l’occasione storica che l’ha ispirata; è testimonianza del conflitto israeliano-palestinese, ma è anche esperienza universale di morte, di solitudine, di perdita; è epica della sorte di un popolo, ma è anche presagio biblico di una luce nella disperazione, fede insomma nella vita e nell’uomo, salda speranza di pace.
La parola di Darwish è moderna, in quanto parla di vicende del nostro tempo, ma il suo immaginario è antico; ha in sé qualcosa di ancestrale, ma anche una levità e una leggerezza che la rende umana, comprensibile a tutti, vicina agli uomini e alle loro sofferenze. La sua poesia è raffinata, ma non intellettualistica. Non nasce mai un mero esercizio formale o da un atto solipsistico, ma parte da un’esperienza di verità, dal bisogno di fermare sulla pagina un mondo che l’atrocità della guerra stava distruggendo per sempre (p. 46):
Mare per un settembre nuovo. Il nostro autunno è alle
porte.
Mare per il canto amaro. Abbiamo approntato tutta la
poesia per Beirut.
Mare il mezzogiorno.
Mare per le bandiere dei colombi, per la nostra ombra,
per la nostra arma individuale,
mare per il tempo della metafora
per le tue mani, quante onde hanno privato le tue mani
del gesto e della mia attesa
da’ la nostra forma al mare. Appoggia il sacco delle
tempeste accanto alla prima roccia
e sorreggi il tuo vuoto e la mia sconfitta.
E il cuore ha saputo lanciare a una finestra il suo ultimo
saluto,
e ha potuto ululare, e promettere alla steppa
libero pianto. […]
Darwish è poeta dal grande respiro, dal dominio vigile e attento delle immagini, dal gusto innato per la metafora; ma anche concreto, perché legato al suo tempo. Il suo ‘ canto amaro’ evoca il deserto della solitudine, ma non spegne mai la speranza, la possibilità che esista altro dietro la tragicità del presente, e Beirut non è più solo la sua città, ma anche l’emblema di una ferita sempre aperta di separazioni definitive, di amori negati e vite spezzate degli esuli di ogni tempo.