Accade spesso che l’arte sottile e complessa della diplomazia si riveli l’unica strada percorribile per ricucire i fili strappati di un’interdipendenza globale che lega ogni angolo del globo. Accade altrettanto spesso che questa stessa arte, così preziosa e determinante nel plasmare gli equilibri geo-politici mondiali, si risolva in uno sterile trionfo dell’ipocrisia, nella pavida volontà di mantenere uno status quo che, come nel caso del Myanmar, non può e non deve essere accettato. Un confine labile che Francesco, il papa francescano, il papa coraggioso, lo stesso delle dichiarazioni rivoluzionarie sull’omosessualità o il divorzio, considerando le posizioni della chiesa su questi temi, ha insospettabilmente varcato. Francesco ha scelto il silenzio, o meglio la dissimulazione, un’allusione che non può bastare nella sua vacuità. Il pontefice, come gli era stato “raccomandato”, non ha proferito la parola “Rohingya”, quella parola che fa tristemente rima con persecuzione, pulizia etnica, segregazione. Un’altra occasione perduta, per la cultura occidentale, di affermare senza paura i suoi valori di rispetto dei diritti umani agli occhi del mondo. Affermare la nostra identità sempre più sbiadita è necessaria per ricordare chi siamo e da dove veniamo principalmente a noi stessi. Affermare per Essere, senza alcuna velleità di proclamare superiorità culturali che non possono avere patria in un mondo plurale, un mondo che necessita di unità nella diversità.
CHI SONO I ROHINGYA. La parola che si è trasformata in un anatema potentissimo, “Rohingya”, si riferisce ad una minoranza etnica di credo musulmano le cui origini sono ancora incerte fra chi afferma la provenienza dal Myanmar e chi quella dal Bangladesh. Musulmani, sembra strano a chi, come noi occidentali, è abituato ad associare artificiosamente questa parola con quella di “terrorismo” o “fondamentalismo”, categorie concettuali di cui spesso ci sfuggono le sottili differenze. Da persecutori a perseguitati, dunque. Secondo l’ONU quest’etnia sarebbe addirittura tra quelle più perseguitate al mondo. Dagli anni della giunta militare in Myanmar, le misure discriminatorie adottate per vessare questo popolo sono state di una crudeltà inaudita. Dal 1982 gli è infatti impedito di assumere la cittadinanza birmana, non possono possedere terreni, non possono viaggiare senza permesso e non possono addirittura avere più di due figli. Dal 2014 lo stesso, impronunciabile, termine è stato condannato ad una vera e propria “damnatio memoriae” ed è vietato pronunciarlo in ogni angolo del Myanmar.
IL VIAGGIO DI FRANCESCO. Diciamoci la verità, da questo storico viaggio asiatico del pontefice molti osservatori internazionali si aspettavano molto di più. Nella più ottimistica delle ipotesi ci si sarebbe potuto aspettare che il Papa francescano scuotesse il premio nobel Aung San Suu Kyi dal suo rigido cinismo politico, portandola a riconoscere le violenze intollerabili perpetrate ai danni della minoranza musulmana. Niente di tutto ciò è accaduto, tra sorrisi e parole di circostanza si ha l’impressione che si sia persa un’occasione storica, affondata nella cortesia artefatta delle innumerevoli visite istituzionali condotte da Francesco. Il Papa ha dichiarato che la priorità politica del Myanmar deve essere quella di «guarire le ferite della guerra e costruire una vera unità nazionale». Come si può pensare di realizzare un progetto politico così importante quando non si riesce nemmeno a riconoscere l’esistenza di un popolo di centinaia di migliaia di persone. È possibile accettare di cancellare dalla lavagna della storia più di mezzo milione di donne, bambini e adulti come se non avessero mai lasciato un segno nel lungo corso dell’umanità? Può la chiesa del Papa Francescano, la chiesa degli umili, la chiesa degli ultimi, la chiesa dell’amore e dell’inclusione rimanere in religioso silenzio di fronte a simili abusi? Tolleranza, un termine rimbalzato più volte sui nostri schermi durante i servizi dedicati al viaggio del pontefice in Myanmar. Tolleranza, sulla bocca di tanti e nelle azioni di pochi.