David 65. Dove il numero dell’edizione coincide casualmente con l’annata del secolo scorso in cui Marco Bellocchio debuttava con “I pugni in tasca”. L’Accademia del cinema italiano, alle prese con le esigenze della diretta tv, ha dovuto fare i conti con la pandemia e si è vista costretta a mettere su la festa più sciatta, soporifera e surreale che questa boccheggiante industria nazionale potesse desiderare. Oddio, non è che normalmente la cerimonia sia uno spumeggiante baccanale. Ma ieri sera tutti i candidati hanno presenziato in videocall da casa, ed era facile prevedere una parata di librerie, carte da parati, quadri, porte, muri e complementi d’arredo. Praticamente un catalogo Ikea. Tempi serrati, contenuti deboli, format improbabile. Il torpore non risiede nell’assenza dei lustrini, dei finti abbracci o degli applausi stentati, quanto all’essersi attenuti a un linguaggio convenzionale che non aggiunge, non trasmette, non comunica. In definitiva, non emoziona.
Ad ogni modo, diciamocelo, al netto delle speculazioni, la stagione cinematografica del 2019 è stata quella premiata nel corso della serata condotta da Carlo Conti. L’arco temporale di riferimento rispolverava per l’occasione film come l’audace “Il Primo Re” di Matteo Rovere e proprio quel titolo, “Il Traditore”, che aveva incantato la Croisette prima, praticamente un anno fa, e il pubblico italiano poi. Ci stava persino quella revisione di Pinocchio a firma di Matteo Garrone, destinato a confrontarsi con l’immaginario popolare del classico – e ben più artigianale – di Comencini, che con Manfredi, Lollobrigida, De Sica, Franchi, Ingrassia, Incrocci, aveva ben poco da spartire con questa cupa e confusa ripresa. Per carità, ci saranno stati pure “Martin Eden”, “Il sindaco del rione Sanità” e “La paranza dei bambini”, ma qui la problematica inizia a essere generazionale. Prodotti validissimi, di valore e florida prospettiva, ma che al netto di appeal popolare e internazionale avevano ben poche chance di dire la loro contro una confezione più canonica e tradizionale, mancando poi di quella dirompente novità che avrebbe fatto discutere, polemizzare, problematizzare.
Non c’è alcuna sorpresa nel fatto che “Il Traditore” guadagni non solo il miglior film ma anche altre cinque statuette importanti su 18 nomination, compresa miglior regia, miglior sceneggiatura originale (Bellocchio, Rampoldi, Santella, Piccolo), miglior montaggio (Francesca Calvelli), migliori attori protagonista Pierfrancesco Favino e non protagonista Luigi Lo Cascio, nei panni del pentito Contorno. Il tono insieme intellettuale e popolare di un classico film di impegno civile, ma capace di ripensare un intero genere cinematografico, rivela l’anima tutta italiana e votata alla famiglia di Tommaso Buscetta, boss dei due mondi e protagonista di controverse pagine di cronaca italiana. Garrone, del resto, mette sì a segno un grande film per famiglie ma non perde però il gusto per mostri, creature, storture, che non tradiscono la fonte originale ma esaltano la poetica pittorica dell’autore romano. E ci voleva grande coraggio per interpretare tanto liberamente il capolavoro di Jack London come ha fatto Pietro Marcello, in una Napoli immaginaria e immaginifica sospesa nel tempo. E pure l’attore giusto, ovviamente, data la frenetica prova di Marinelli, seguita con spregiudicatezza dalla macchina da presa, tra materiali d’archivio simbolici a incrociare sogni e paure, ricordi e aspettative. E in un’edizione scialba, che si trascina rapida tra un commento e l’altro senza mai approdare minimamente a un prevedibile appello davvero elevato e accorato, è appena la genuina spontaneità di qualche gesto a dare un senso e un valore all’insulsa inconsistente pantomima: i momenti più alti, gli unici di vera empatica partecipazione per lo spettatore, sono stati probabilmente quelli dell’abbraccio degli splendidi bambini di Lo Cascio (con il suo spartano lenzuolo bianco e la connessione precaria) e della figlia di Jasmine Trinca, del bacio entusiasta di Anna Ferzetti o dell’abbraccio della montatrice Francesca Calvelli ai rispettivi mariti. La famiglia con cui condividere la gioia c’è, ed è l’unica certezza.
Absit iniuria verbis, poco importa se gli omaggi agli anniversari dalla nascita di Federico Fellini e Alberto Sordi siano stati sommariamente liquidati con la stessa doverosa reverenza e sbrigativa precarietà con la quale si è accennato al David Speciale assegnato alla quasi centenaria Franca Valeri. La questione si fa ancor più generazionale quando il monumentale viveur della criminalità interpretato da Favino non riesce a trovare concorrenza nell’amatissimo “duo” Borghi-Marinelli, rispettivamente un viscerale Remo rivisitato tra barbe, pellicce, fango e pelo, e il celebre marinaio che si emancipa attraverso la cultura e poi, da quello stesso sistema, viene deluso. Il Buscetta di Favino, di contro, è troppo anche per un maestro come Toni Servillo o per l’ennesima sortita opportunista di Benigni nel mondo di Carlo Collodi. Il fronte più interessante, sebbene concretamente meno equilibrato, era semmai quello dei ruoli femminili: Valeria Bruni Tedeschi, che ne “I villeggianti” dirige e interpreta se stessa in un precario equilibrio con cui non si può non empatizzare (vogliamo anche noi una “nominazione”, bere in diretta un flûte di champagne e il numero della sua psicanalista), e Linda Caridi in “Ricordi?”, opera seconda di Valerio Mieli, si arrendono davanti a Jasmine Trinca, che prima ha mostrato il cartonato di Angelina Jolie e ringrazia Ferzan Özpetek, che per il (rainbow) family movie “La dea fortuna” rimedia anche il premio alla canzone “Che vita meravigliosa” di Diodato. Alla sua ventiduesima (!) candidatura, Valeria Golino ottiene la statuina per 5 è il numero perfetto, in cui si è messa al servizio del noir metafisico del fumettista Igort, spuntandola sulla vestale Tania Garribba, unica presenza femminile in un film feroce e maschio come “Il Primo Re”.
L’incoerenza prende corpo di pari passo all’annuncio dei premi tecnici. Dopo infiniti proclami e inviti alla sensibilizzazione in favore di tutti i lavoratori dello spettacolo, il cinema italiano sembra improvvisamente costituito di soli attori e registi. Sbrigativamente la miglior fotografia è stata andata a Daniele Ciprì per “Il Primo Re” di Matteo Rovere, premiato anche per la miglior produzione e per il miglior suono. Cinque premi per “Pinocchio”: miglior scenografia a Dimitri Capuani, miglior trucco alla coppia formata da Dalia Colli e Mark Coulier (trucco prostetico), migliori costumi a Massimo Cantini Parrini, migliori acconciature a Francesco Pegoretti, migliori effetti speciali a Theo Demeris e Rodolfo Migliari. L’Orchestra di Piazza Vittorio è il vincitore del David per il miglior musicista, per la colonna sonora de “Il Flauto Magico di Piazza Vittorio” di Gianfranco Cabiddu – in barba a Thom Yorke e Nicola Piovani – mentre la miglior sceneggiatura non originale è andata a Maurizio Brauci e Pietro Marcello per “Martin Eden”. Il film “Selfie” di Agostino Ferrente ha vinto il premio come miglior documentario. Il miglior regista esordiente è invece Phaim Bhuiyan – per “Bangla”, commedia fresca, brillante, promettente – che ha dedicato il premio a “tutti i ragazzi di seconda generazione che con tanti sacrifici ce la stanno facendo. Grazie all’Italia che ci ha dato tanto”.
E nella giornata che sembra aprire uno spiraglio alla riapertura di cinema e teatri, l’edizione dei David tributa il suo omaggio “alle oltre 200mila persone che lavorano nel mondo del cinema, alle associazioni che stanno lavorando alla ripartenza, a quegli schermi ora spenti ma che presto si riaccenderanno”. Nella lettera indirizzata a Piera Detassis, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella definisce “il cinema – come tanti grandi maestri italiani ci hanno insegnato – l’arte del sogno. Un sogno che si realizza ogni volta, concretamente, con la collaborazione di tutta una filiera di professionalità – attori, registi, tecnici, sceneggiatori, pittori, scenografi, costumisti, musicisti e tanti altri – e che genera, a livello industriale, un notevole e importante indotto. Per ricostruire il nostro Paese dopo la drammatica epidemia sarà necessario recuperare ispirazioni e, quindi, tornare a sognare e a far sognare. E questo è il compito precipuo dell’arte, della creatività e degli artisti. Un compito alto, che la nostra Costituzione disegna all’art. 9, che affida alla Repubblica il compito di promuovere lo sviluppo della cultura e di tutelare il nostro patrimonio storico e artistico”.
Ma alla fine della fiera, tra sterili commenti e proclami di circostanza, a mancare ancora una volta è proprio la fantasia. Nello studio televisivo di Via Teulada incombeva un opprimente senso di solitudine e malinconia che nemmeno Samuele Bersani avrebbe saputo fare meglio né colmare grazie a fiacchi siparietti con l’ausilio della tecnologia. Tanta noia e poche sorprese. Due ore e mezza di supplizio tra “curiosità” storiche che non fregano a nessuno direttamente reperite dal web, una “involontaria” sortita webcam di Carlà, il girocollo scuro di Matteo Garrone, smoking inopportunamente caustici e résumé sulle note dei Coldplay e Michael Bublé. E mentre un inossidabile Maestro Bellocchio si dimostra affabile e ciarliero, speranzoso di poter fare ancora film in cui crede, si assiste all’ammissione di incapacità di un’industria che premia con il David dello spettatore Il primo Natale di Ficarra e Picone e poi tributa i meritati onori del miglior film straniero all’acclamato Parasite di Bong Joon-ho, quale mirabile esempio della cinematografia internazionale. Ma non ci si rende conto della contraddizione in termini? Probabilmente sì ma si continua a confidare che per il mercato – chiaramente strettamente interno – basti l’annuale solita interpretazione dei Favino, Germano, Buy, Bruni Tedeschi, Mastrandrea, Trinca, Ramazzotti, Borghi, Marinelli e chi più ne ha più ne metta. Per carità, non intendiamo con questo che le commedie – certo non più quelle all’italiana di Germi – costituiscano una piaga. Ma sicuramente l’industria dovrebbe diversificare maggiormente i prodotti, oltre ai consueti incassi delle uscite natalizie. Non ci sono più i grandi maestri di una volta e quelli contemporanei iniziano a invecchiare, mentre le giovani generazioni di cineasti arrancano con acerba discontinuità. E la nostra award season ne è abituale banco di riprova.