Il colpo d’occhio dall’alto lascia a bocca aperta. Soltanto dall’elicottero si comprende la vastità della platea: 225mila teste, che nella notte si trasformano in 225mila lucette di display accesi di telefonini che riprendono l’evento: Modena Park, il concerto dei record svoltosi il primo luglio 2017. Un successo senza eguali. Duecentoventicinquemila spettatori. #ModenaPark trend topic su Twitter, milioni le visualizzazioni su Facebook. Pieni i 197 cinema, i due palazzetti, piazze e spiagge, dove l’evento venne proiettato in diretta. Oltre 17 milioni di spettatori sintonizzati su Rai1 per uno share superiore al 36,1%.
«È stata la tempesta perfetta» sorrideva sornione e beffardo Vasco Rossi il giorno dopo la lunga e magica serata per i suoi quarant’anni di carriera. «È andato tutto così bene da non crederci. Io neanche nei miei sogni più sfrenati ho immaginato di arrivare a questo successo. Credevo che al massimo avrei avuto una mia piccola nicchia. E invece…». E, invece, è stata la sua rivincita. E, un po’, anche la sua vendetta. Contro chi gli tirava freccette ai concerti agli esordi. Contro chi lo ricoprì di insulti alla sua prima apparizione a Sanremo. Contro tutti quei benpensanti che lo avevano additato come “drogato”, “dannato”, “sbandato”. «Avevo davanti gli scalini che mi avrebbero portato sul palco di Modena Park e mi sono ricordato quando andai dentro, quando mi misero in galera che dovevo salire le scale per entrare in carcere» ricorda in una intervista al fotografo Armando Gallo. «E mi è venuto da ridere. Sempre scale sono, ho pensato. Poi ho preso il microfono e sono salito, lentamente, inebriato da un grande senso di soddisfazione per essere stato capace di tenere duro per tutti questi anni, per essere riuscito a trasformare tutte le avversità in successi».
Quel giorno l’ex “cattivo maestro” Vasco Rossi è stato innalzato a eroe nazionale, a modello positivo per il Paese. Osannato come “simbolo di musica e di libertà”, quel giorno è entrato nella storia del rock mondiale. «Se fosse successo a Londra o a New York, ma anche a Roma o a Milano probabilmente, ne avrebbero parlato i Tg di tutto il mondo. Ma va bene così, mi tengo stretto un senso di soddisfazione grandissimo perché tutto ha funzionato senza il minimo intoppo, anche sotto il profilo dell’ordine pubblico…».
“La tempesta perfetta”. Irripetibile. «Io sinceramente non la farò mai più. Modena è stato il punto di arrivo» sottolinea. «Il sogno per il futuro sarebbe di poter suonare con un gruppo nei locali ogni settimana, di venerdì e sabato, e poi tornare a casa. Senza problemi organizzativi, pressioni, strutture. Oppure tornare a fare le mie canzoni con la chitarra nei posti piccoli, per ritrovare quella sensazione, vedere le reazioni nei volti, suonare le canzoni come sono nate. Prima o poi lo farò. Ma finché attorno a me ci sono ancora tanta richiesta e tanto affetto, finché la gente si diverte ai miei concerti, e finché mi diverto anch’io, vado avanti… Anche se nell’attesa mi tocca stare a casa un anno a rompermi le palle» si lamenta dalla “suite Fellini” di Rimini, dove si è trasferito in questi giorni di pausa forzata a causa dello stop ai concerti per l’emergenza sanitaria. «Qui avremmo dovuto fare le prove per i concerti che poi sono saltati. Alla fine ho deciso di venirci lo stesso, un po’ per scaramanzia, un po’ perché qui ho un sacco di ricordi, ci venivo dal 1985: prendevo una casa, si stava bene. E adesso da dieci anni ritorno. Ci sono venuto anche ai tempi di Modena Park. Non volevo stare a Modena o nei dintorni perché avrei sentito troppo la tensione e così sono venuto qui: questi sono proprio gli stessi giorni in cui andavo su e giù, ogni volta due ore e mezza con l’aria condizionata che una volta è esplosa! Si moriva», ricorda in una intervista a Repubblica.
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“La tempesta perfetta”, la Woodstock di Vasco Rossi, è poi diventata un film di quasi tre ore (proiettato nei cinema nel dicembre del 2015 con un altro record, quello di spettatori in un solo giorno) e adesso uno speciale tv. La tempesta perfetta di Giorgio Verdelli andrà in onda il primo luglio alle 20.35 su Rai1. Nello speciale sarà mostrato tutto il materiale dei vari backstage, dei social e una documentazione accurata per rivivere l’evento a 360 gradi: dall’arrivo di Vasco girato dall’elicottero su cui viaggiava, a quello dei fan, sino alle immagini dei droni sull’enorme area circostante. Una intervista realizzata da Verdelli farà da filo conduttore al programma, con Vasco che racconterà il concerto e i momenti più emozionanti, mescolando il presente di oggi con le tensioni di tre anni fa, con i gravissimi incidenti di Torino e l’attentato terroristico al concerto di Ariana Grande a Manchester.
Attraverso le canzoni, Vasco racconta la sua storia in modo quasi cronologico. Dagli anni Ottanta della rabbia ai Novanta della consapevolezza, fino al disincanto, all’amarezza, alla disperazione. «Le canzoni hanno una forza comunicativa enorme» si meraviglia ancora come un bambino. «Io grazie alla musica ho scoperto di non essere “strano” come credevo, raccontavo le mie debolezze e trovavo migliaia di persone come me».
Nel film, spettacolare e travolgente, il concerto è vissuto come se fossimo sul palco accanto a Vasco. E i veri protagonisti sono i volti pieni di gioia, sorridenti, urlanti, ma anche emozionati, commossi, con le lacrime agli occhi nei momenti più intimi del megashow. «Siete voi il mondo migliore» urla Vasco.
Una folla di giovani, ragazze, impiegate, mamme, signore bene, avvocati, commesse, studenti e studentesse, operai, camerieri, artigiani. È come stare in un film di Alberto Sordi, più che in un megaconcerto rock. E va pure bene il carroponte che fa transitare da un punto all’altro l’immagine di Vasco, l’idea di una potenza in metalli e leghe sofisticate che ne spieghino lo sguardo, l’intenzione, l’esuberanza fisica, la storia artistica. Va bene tutto, se si capisce bene che questo mare di gente non fa solo festa, ma aspetta una parola. «Siamo solo noi e non vi stiamo più ad ascoltare». I destinatari sono ancora le istituzioni, chi governa, chi dovrebbe assicurare stabilità e lavoro ma disattende qualsiasi impegno.
In Italia si litiga su tutto, si rinnegano ideologie e appartenenze, si annaspa nella mediocrità della classe politica e ci si spaventa per l’assenza di risposte, ma su Vasco c’è un’opinione diffusa: è nato trasgressivo, ma ha dimostrato più buon senso di intellettuali e maître à penser. Coerente a prescindere, divinizzato per plebiscito. Immortale in quanto (amico) fragile. Non si discute: si ama. C’è, nella sua cifra, una particolarissima capacità di coniugare devianza e mainstream, ballate col cuore e folgorazioni di pancia («Perché la vita è un brivido che vola via / è tutta un equilibrio sopra la follia»).
Vasco è il ribelle post-moderno. Così apolitico da suonare (quasi) eversivo. Così furbo da sembrare (quasi) candido. Nella sua imprecisata insoddisfazione, che i politologi definirebbero “qualunquista”, c’è la declinazione – da quotidiano a forma d’arte – dell’indistinto fastidio per un mondo che «fa venire il vomito», governato com’è da «queste facce qui, non mi dire che son proprio quelli lì». Mondo squallido eppure «stupendo», perché (da qualche parte) si possono mangiare ancora le fragole. Come nella canzone Sally. Quasi come nei film di Bergman.