“Non mangio la pasta senza Parmigiano/ ho la pelle scura, l’accento bresciano/ un cognome straniero e comunque italiano/ a volte mi sembra di esser qui per sbaglio/ Sanno poco di me, sono loro bersaglio/ ciò che ho passato loro non lo sanno/ e il mio passato mai lo capiranno/ Mi dai del negro, dell’immigrato/ il tuo pensiero è un po’ limitato/ Il mondo è cambiato, non è complicato/ “Afroitaliano” per te è un rompicapo”.
Trattati come stranieri in casa loro. Sono gli “afroitaliani” cantati dal rapper bresciano-nigeriano Tommy Kuti. Italiani di seconda generazione, figli di coppie miste o di famiglie di immigrati della prima ora. Nati o cresciuti qui, hanno le cadenze dialettali delle diverse regioni d’Italia: ragazzi dalla pelle scura o dagli occhi a mandorla, dallo sguardo azzurro e dai capelli biondi dei Paesi dell’Est Europa. A dargli la parola, a rivendicare con orgoglio un’appartenenza e anche il diritto alla cittadinanza, è stata finora la musica, con Ghali e Mahmood. Adesso arriva anche la televisione con una serie in otto puntate su Netflix intitolata Zero.
Al centro della storia, nata da un’idea di Antonio Dikele Distefano (autore italiano con origini angolane) e co-sceneggiata insieme a Menotti (Lo chiamavano Jeeg Robot), c’è Omar, detto “Zero”, interpretato dall’esordiente venticinquenne Giuseppe Dave Seke. È un ragazzo timido, un fattorino di periferia, un rider dei nostri giorni, che si scopre dotato di un potere speciale. Il superpotere di esistere, di farsi capire. La voglia di esserci in una realtà filtrata di periferia. Un nugolo di ragazzi di colore, “afroitaliani”, giovanissimi, con il loro slang di quartiere, con sogni, attese, missioni da compiere. Si fa gruppo attorno al supereroe dei tempi moderni che era uno zero e che invece ha scoperto di essere capace di scomparire, di farsi invisibile a comando. E decide di usare questo superpotere per difendere il Barrio, un quartiere della periferia milanese, insieme agli amici.
Il cast è composto da giovani italiani, di prima e seconda generazione, selezionato attraverso un casting avvenuto su Instagram. «Questa è la storia di un ragazzino di origini africane che impara ad accettare la propria diversità», spiega Antonio Dikele Distefano. «È la storia di un salvataggio e di un superpotere che sta nel vedere il bello in tutte le cose. È una storia che può arrivare a tutti perché ad accumunare i ragazzi non è solo il colore della pelle ma sentimenti veri. Condivisibili sotto qualsiasi etnia. E mentre il romanzo, Non ho mai avuto la mia età, spingeva più sulla riflessione, la trasposizione televisiva Zero guarda alla leggerezza, che penso sia quello a cui tutti tendiamo in questo momento».
Il protagonista, Giuseppe Dave Seke, tutto si aspettava fuorché essere preso, così come il resto degli attori. Che si sentono invisibili, e in questo senso la non visibilità non è un superpotere. Tutt’altro. Per cui la speranza è che la serie dia «un’immagine diversa rispetto a quella stereotipata che danno giornali e tv». «Tanta letteratura non racconta il nostro mondo», sostiene Giuseppe Dave Seke. «Solo quando non ci si stupirà più del colore della nostra pelle, ma si guarderà nello specifico a che cosa avviene nella storia narrata, allora avremo fatto centro».
E anche la parola “afroitaliani” non è amata. «È una iconografia che arriva da dispute razziali d’oltre Oceano, la nostra situazione è molto differente. Qui ci sente italiani e basta. Un ragazzo deve poter guardare Zero perché si rivede nel protagonista, perché si riconosce in quello che fa, in quello che prova. E deve riconoscerlo in quanto persona, non per il colore della sua pelle, parlare di integrazione è anche riduttivo… abbiamo accenti veneti, milanesi».
«Quando ho iniziato a pensare alla serie mi chiedevo: “Io sono un grande amante dei manga, ma tu pensa a un supereroe nero italiano”», spiega Antonio Dikele Distefano. «Il discorso dell’invisibilità è una metafora. In Italia, abbiamo bisogno di normalità: non di eccezionalità».