La sconfitta di Laura Pausini ai David di Donatello è la perfetta metafora della vita. Un attimo prima vinci il Golden Globe, voli a Los Angeles e stai per vincere l’Oscar. Un attimo dopo ti ritrovi in Italia, dove ti esibisci all’Opera di Roma in apertura della cerimonia di consegna del più prestigioso premio cinematografico del tuo paese, e – contro ogni pronostico – ti vedi soffiare la statuetta da Checco Zalone, comico, che se la aggiudica per la parodia di un brano a metà tra Celentano e Toto Cutugno. Peccato che la scelta non sia probabilmente figlia di una corrente di voto antisistema, irreverente nei confronti dei riconoscimenti esteri, quanto lo specchio di un sistema nevrotico e irrazionale che risponde a logiche per nulla casuali. Decisamente meno ingenue e candide dell’immagine canzonatoria di un re – che dico, imperatore! – degli incassi al box-office in collegamento da casa e quasi in canottiera. Zalone 1 – 0 Pausini (“c’è poco da parlare, stiamo godendo” commenterebbe qualche hater della cantante di Solarolo, citando impropriamente un vincente allenatore di calcio).
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Ma, se la serata si apre con un ispirato e ciarliero Franceschini che, nel suo comizio, si attribuisce la paternità di meriti che non ha, Carlo Conti è perfetto per condurre la sagra delle banalità, tra siparietti perdibilissimi, commenti generalisti e l’intrattenimento sterile di una serata televisiva che va spedita, fin troppo serrata, senza alcuna costruzione artistica o progettualità esecutiva. Voleva essere un gala elegante in stile Golden Globes e invece è stato un tripudio di piatte, grige e insipide convenzioni. C’è Pierfrancesco Favino che, dopo aver chiesto che si insegni il cinema e il teatro nelle scuole italiane “ma nelle ore di lezione, non durante il pomeriggio”, la prossima volta farà un appello per la pace nel mondo come a Miss Italia; un abbronzato Diego Abatantuono, in segno di protesta per i #DavidSoWhite, subito scritturabile per sostituire Amauri nella pubblicità di Costa Crociere (“sono appena tornato”) ma magari con una giacca nuova; ma soprattutto Laura Pausini che, con “solo in Italia mi cago sotto”, entra di diritto nella Walk of Trash…
La platea di candidati, che si supponeva adusa a questo genere di appuntamenti mondani, non è, dal canto suo, in grado di riconoscere quando è doveroso un applauso o una standing ovation (che sia alla memoria di Ennio Morricone, Gigi Proietti o Mattia Torre). Poca spontaneità – data la necessaria supplica del conduttore – ma anche poca empatia e corporativismo. Poi glielo deve insegnare Sophia Loren, 86 anni, che i discorsi di ringraziamento bisogna scriverseli per scongiurare figure di merda con il premio in mano. Mannaggia a loro… Perché faranno anche gli attori ma se si tratta di improvvisare… siamo sicuri siano del mestiere? Se il miglior intervento lo ha fatto una bambina – la piccola Emma Torre, che ritira il premio postumo al padre per la miglior sceneggiatura originale di “Figli” – questo basta per capire l’andazzo. C’è il Covid, la crisi e il mercato in contrazione: anche per i premiati dei David Speciali, che rinunciano quest’anno a nomi internazionali del calibro dei precedenti Spielberg, Diane Keaton, Uma Thurman e Tim Burton. E allora non è mai troppo tardi per ricevere un premio: ad arrivarci a 88 anni come Sandrocchia! Di premi speciali ne sa qualcosa pure Monica Bellucci, che interpreta se stessa con il solito tono da “so contenta pe’ prende sta statuetta…”.
Tornando seri, sui premi ci sarebbe tanto, troppo – oppure poco – da dire. È stata una stagione cinematografica esaltante e strepitosa – dicono. Quella del cambiamento. Lo sarà anche stata, di certo, per i film praticamente di un anno fa. Volevo Nascondermi di Giorgio Diritti lo avevamo visto nel febbraio scorso alla 70ª Berlinale, che era valsa a Elio Germano l’Orso d’argento al miglior attore, così come quello alla migliore sceneggiatura a Damiano e Fabio D’Innocenzo per Favolacce. Le sorelle Macaluso di Emma Dante (Premio Pasinetti), Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, I Predatori di Pietro Castellitto (Premio Orizzonti per la sceneggiatura), Lacci di Daniele Luchetti e Assandira di Salvatore Mereu erano in selezione a Venezia; Cosa Sarà di Francesco Bruni e Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli alla Festa di Roma. Per il resto, ai David c’è poca, pochissima sala.
Non sorprende, infatti, il trionfo di Palomar con ben 7 riconoscimenti, tra cui miglior film, regia, miglior attore, miglior fotografia, scenografia, acconciature e suono. Si può dire, senza suonare irriverenti, che Elio Germano ha la stessa gobba – absit iniuria verbis – che aveva ne Il Giovane Favoloso per il solo fatto di aver sorretto anche quest’anno l’intero peso del cinema italiano. La sua interpretazione di Antonio Ligabue ha la meglio sul Craxi del “feticcio” Favino e su un sempreverde Kim Rossi Stuart, eppure – ci avevamo sperato – è Renato Pozzetto il vincitore morale dell’edizione, che meritava l’autorità di un David per la sua toccante prova in Lei mi parla ancora di Pupi Avati. Dopo The Undoing con Nicole Kidman e Hugh Grant, Leonardo con Aidan Turner e la conduzione a Sanremo, questo è indubbiamente l’anno di Matilda De Angelis, migliore attrice non protagonista per L’incredibile storia dell’Isola delle Rose di Sydney Sibilia, prodotto da Matteo Rovere e Groenlandia. Insieme con Benedetta Porcaroli, fa ben sperare per il futuro del cinema italiano.
Non mancano le conferme per Fabrizio Bentivoglio miglior attore non protagonista, Castellitto Jr. miglior regista esordiente e la sorpresa per Gianni Di Gregorio e Marco Pettenello alla miglior sceneggiatura non originale. Discorso a parte per Sophia Loren, miglior attrice protagonista per La vita davanti a sé e al suo settimo David su sette candidature, che vincerebbe anche facendo le boccacce e che non è decisamente la Glenn Close italiana: leggendaria, immensa icona italiana e internazionale, qui quantomai primadonna, ma c’è del timore reverenziale se anche stavolta prevale sulle colleghe.
Non pervenuto Hammamet di Gianni Amelio – della cui assenza non si è parlato abbastanza – che si accontenta del miglior trucco mentre l’audace Miss Marx strappa produzione, costumi e musiche. Favolacce (quasi) a mani vuote – dopo 13 nomination e miglior montaggio a parte – dimostra che Gabriele Muccino vanta tanti amici tra quei 1.500 votanti. È lui, forse, ad aver vinto anche senza vincere, un po’ come quei tifosi dell’Inter che festeggiano l’eliminazione della Juve in Champions League.
Al dirompente – e discusso – cinema dei gemelli registi l’Accademia del Cinema Italiano continua a preferire un più tradizionale biopic. E mentre oltreoceano si invocano rivoluzioni, di fronte a questioni di genere e alle minoranze, nel cinema italiano la spuntano a malapena Esmeralda Calabria e il trio rosa Ferrari-Mura-Zamagni mentre il David si continua a trincerare dietro un buon cinema classico, sacrificando sugli altari quello più pop, contemporaneo, innovativo. Imbarazzante anche lo snobismo verso le categorie tecniche, un po’ come sempre relegate. Insomma, scimmiottiamo gli Oscar ma ne siamo lontani anni luce.
Siamo, però, certi che altri premi cinematografici vendicheranno a dovere ogni torto subito (a partire proprio da Pausini e Rosi su tutti, passando dai soliti ricchi premi simpatia elargiti con generosità). Il cinema ancora lo sappiamo fare, lo show televisivo all’americana decisamente meno. Il cinema italiano naviga a vista, con uno stato di salute un po’ compromesso che si dibatte tra film da festival e commedie da botteghino. Arriverà anche il cambiamento. Ma certamente non è questo l’anno. “Madonna mia, aiutatm”. Sono le prime parole di Sophia Loren dopo la vittoria del suo settimo David. Ma anche il perfetto riassunto di questa cerimonia di premiazione. Questa è la mia verità sui David di Donatello. Altro non so.