Sono pochi i film che riescono a raccontare il mondo del cinema e della Settima Arte in modo poetico e fedele, entrando talvolta nell’immaginario collettivo, come “8 ½ di Federico Fellini”, “Stardust Memories” di Woody Allen, “Viale del tramonto” di Billy Wilder e “Hollywood Party” di Blake Edwards. Senza contare i sempre più frequenti e fortunati biopic su attori, registi o sceneggiatori, o capolavori che rivendicano il mito – e la maledizione – della Mecca del Cinema: da Tarantino a Robert Altman, passando per Tim Burton, Martin Scorsese e David Lynch, il cinema racconta sé stesso e la creazione del proprio mito.
Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder
Il capostipite, o quasi. Prima c’erano stati altri autori di culto, come George Cukor (A che prezzo Hollywood?, 1932) e Preston Sturges (I dimenticati, 1941), a esplorare la Los Angeles dei provini e dei teatri di posa. Ma il capolavoro di Wilder è tutt’oggi la sintesi perfetta. Merito della sceneggiatura dello stesso maestro e di Charles Brackett – che assegnano il ruolo di narratore al cadavere di un meraviglioso William Holden –, della prova attoriale straripante di Gloria Swanson, delle citazioni (il “maggiordomo” Erich von Stroheim) che segnano il passaggio dalla Golden Age a una nuova era. «Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo» sospira la diva al crepuscolo mentre consegna a Cecil B. DeMille il proprio allucinato primo piano. Questo cinema, invece, è grandissimo sempre.

Cantando sotto la pioggia (1952) di Stanley Donen e Gene Kelly
Il più grande classico del musical è anche una lezione di storia del cinema, diretta da due monumenti del genere. Gene Kelly, con Debbie Reynolds e Donald O’Connor, è anche il protagonista di questo take canterino e ballerino sul caos che il passaggio dal muto al sonoro ha scatenato nell’industria cinematografica e che potrebbe costare la carriera al suo Don Lockwood. Tra canzoni indimenticabili, sfarzose coreografie (con Miss Cyd Charisse) e quell’indimenticabile numero di Kelly sotto la pioggia.
Stardust Memories (1980) di Woody Allen
Forse il film più personale del regista newyorkese, ispirato dal cinema europeo di Federico Fellini e Ingmar Bergman. Sandy Bates, un regista in piena crisi esistenziale, riversa i sentimenti e le angosce per la transitorietà del mondo nel proprio film, chiuso e poco commerciale, che i produttori cercano in tutti i modi di rendere più commerciale. Costretto a partecipare per un week-end a una retrospettiva a lui dedicata, incontra un gran numero di persone, compreso un gruppo di alieni. Nella stessa occasione Bates incontra Isobel, ex amante che ha appena lasciato il marito, e Daisy, problematica intellettuale. Ancora scottato dalla focosa relazione con l’instabile Dorrie, si trova di fronte ad un’altra difficile scelta.

La rosa purpurea del Cairo (1985) di Woody Allen
Anni ’30, durante la Grande Depressione la malinconica Cecilia di Mia Farrow trova evasione dalla sua vita scialba trascorrendo interi pomeriggi in un cinema, dove proiettano senza sosta il feuilletton La rosa purpurea del Cairo. Accade che il bel protagonista del “film nel film” (Daniels), colpito dall’assidua presenza della sognante spettatrice e stanco della monotonia del proprio ruolo, abbandoni lo schermo per vivere maldestramente con lei una tenera e ironica storia d’amore. Presentato fuori concorso al 38° Festival di Cannes, è un film intelligente, gradevole, malinconico e poetico.
I protagonisti (1992) di Robert Altman
Hollywood come «luogo di tagliole con personaggi seduti nei loro uffici, preoccupati solo a far profitto e con nessun senso di vergogna. Nel passato si cercava un buon attore, un buon regista e un bravo scrittore, ora prima decidono come vendere un film, e una volta venduto cercano di farlo». Così sentenziò il regista in merito al soggetto dell’opera che lo ha rilanciato presso pubblico e critica. Il produttore Griffin Mill (John Cusack), minacciato di morte, resta una delle figure più memorabili della “fake” Hollywood. Come tutto il film, graziato da un cast esageratamente iconico: tra gli altri, anche Greta Scacchi, Whoopi Goldberg, Sydney Pollack, Christopher Walken, Cher, Jeff Goldblum, Burt Reynolds, Susan Sarandon, Julia Roberts e Bruce Willis, quasi tutti nei panni di sé stessi. I protagonisti, sotto ogni punto di vista.
Ed Wood (1994) di Tim Burton
“Il peggior regista di tutti i tempi” raccontato da uno dei suoi più grandi fan: niente poco di meno che Tim Burton, altrettanto eccentrico e innamorato dei vecchi monster movie. Un biopic in un glorioso bianco e nero, che è anche una delle prospettive più lucide e grottesche sul backstage degli anni ’50. Nonché storia primordiale di creatività con una performance di Johnny Depp ispirata e naïf che accanto a Bill Murray e Martin Landau nei panni della vecchia icona Bela “Dracula” Lugosi – acerrimo nemico del più amato Boris Karloff – fa fuochi d’artificio. Storia di un travagliato iter produttivo caratterizzato da ispirazioni assurde, stima malriposta e delusioni, incapaci però di spegnere un entusiasmo solitario e testardo.

Mulholland Drive (2001) di David Lynch
Nato come pilota di una serie tv purtroppo mai realizzata, è rimasto uno degli esempi più clamorosi di racconto sull’altra faccia di Hollywood. Un luogo simbolicamente colto da amnesia in cui le ragazze si fanno chiamare Rita dopo aver visto la divina Hayworth sul poster di Gilda e in cui tutti aspettano la propria grande occasione. In cambio c’è invece solo l’illusione, come quella – impossibile da risolvere – alla base del quanto mai oscuro intreccio della trama. Ironia della sorte o profezia, la protagonista Naomi Watts, al primo ruolo da protagonista dopo anni di provini andati a vuoto, diventerà un’autentica star, esattamente come il suo personaggio sullo schermo.
The Aviator (2004) di Martin Scorsese
1927, l’epica di Hollywood in volo. Vita, opere e miracoli del produttore e pioniere dell’aviazione Howard Hughes, targato Martin Scorsese. Che sceglie coraggiosamente un appena trentenne DiCaprio per dare corpo alle ossessioni e ai disordini del visionario quaratenne magnate texano. E Leo è ovviamente superbo, come nelle scene in cui dirige Hell’s Angels o in quelle di disturbo compulsivo. Il resto lo fanno Gwen Stefani, Kate Beckinsale e soprattutto una Cate Blanchett da Oscar, nei panni glamour delle sue donne (rispettivamente le divine Jean Harlow, Ava Gardner e Katharine Hepburn). Nell’ostinato giovane produttore di Scarface, nell’esperto aeronautico capace di prevedere e di rischiare sul futuro dell’aviazione civile, Scorsese ha visto uno di quei personaggi capaci di “sporcarsi le mani” pur di raggiungere l’agognato obiettivo.

Tropic Thunder (2008) di Ben Stiller
Tipo Apocalypse Now, ma scritto da Borat. Ben Stiller mette a segno la più esilarante parodia dei war movie, starring la Hollywood in costante guerra con il proprio smisurato ego e alle prese con la realizzazione di un kolossal sul Vietnam, con il cast e la troupe peggiore che si possa immaginare. Tugg Speedman è una superstar muscolosa alla Rambo che però deve ancora dimostrare di saper recitare. Al contrario del Kirk Lazarus di Robert Downey Jr., cinque volte premio Oscar nel film e che si porta a casa anche una nomination – vera – come non protagonista. Esilarante, sfacciato e imprevedibile: la finzione diventa realtà e giocare alla guerra diventa, paradossalmente, pericoloso. Tra scene di rara ignoranza, c’è Tom Cruise. Ma anche un attore australiano che interpreta, a sua volta, un soldato afroamericano che fa finta di essere un coltivatore vietnamita. Ed è solo l’inizio.
The Artist (2011) di Michel Hazanavicius
Il film muto sulla celebre stagione del cinema muto non ha nemmeno una decade ma ha già fatto la storia, attestandosi come la prima produzione francese a vincere l’Oscar al miglior film (insieme ad altri quattro, compreso quello al miglior attore Jean Dujardin). Merito del disimpegnato soggetto, spassionatamente americano e capace di strizzare l’occhio all’industry losangelina con riferimenti che non si contano: da Cantando sotto la pioggia al nome del protagonista George Valentin, che si rifà al celebre Rodolfo. Il jack russell “supporting” ha fatto il resto in quella che è stata una vera conquista di Hollywood.
Hitchcock (2012) di Sacha Gervasi
1960, il maestro del brivido Alfred Hitchcock, dopo Intrigo Internazionale, è alla ricerca di un soggetto diverso e si appassiona al romanzo di Robert Bloch che trae ispirazione dalla vicenda del pluriomicida Ed Gein. La Paramount, con cui Hitch è sotto contratto, non ne vuole sapere di produrre un horror come Psyco ma il regista è convinto al punto da autoprodursi il film, girando negli studi Universal con la troupe della sua serie televisiva per abbattere i costi. Uno straordinario Anthony Hopkins fa molto più della caricatura di Hitch.

Saving Mr. Banks (2013) di John Lee Hancock
1961, ossessionato dalla promessa fatta alle sue figlie, Walt Disney sogna di realizzare un musical in technicolor con pinguini animati e spazzacamini volteggianti dal libro Mary Poppins. Testarda e ostinata a rendere la vita un inferno a chiunque, Pamela Lyndon Travers si persuade a partire per la California. Impermeabile agli ossequi e all’amabile papà di Topolino, l’algida autrice si siede in cattedra e passa in rassegna lo script e la sua infanzia, sublimata nei suoi romanzi. Tom Hanks ed Emma Thompson sono meravigliosi interpreti di una pellicola che, pur prendendosi diverse libertà narrative, rende omaggio a due decadi di estenuanti trattative per diritti cinematografici che rivelano anche un’intima storia familiare.
Birdman (2014) di Alejandro Gonzalez Iñárritu
Il declino e la risalita dell’attore Riggan Thomson, un tempo famoso per aver interpretato proprio il supereroe citato nel titolo, quasi come la parabola del suo interprete, Michael Keaton, che in un glorioso passato ha indossato il costume del Batman di Tim Burton. L’industria cinematografica si rivela un meccanismo distorto che fagocita e sputa alla velocità della luce chiunque vi ci entri. Il regista apostrofa sornione le stranezze degli attori (come il personaggio interpretato da Edward Norton), i cine-comics e la critica cinematografica. Nove candidature agli Oscar 2015, vincendone quattro: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia.
Maps to the Stars (2014) di David Cronenberg
Ebbene sì, anche lui ha vestito i panni dell’insider di Hollywood. Ovviamente alla sua maniera, con deriva “psycho” assicurata. Trascurato dalla critica al Festival di Cannes, è in realtà uno degli affreschi satirici più spietati sulle stelle, vere o presunte: dalla diva Havana Segrand (una Julianne Moore meritatamente premiata con la Palma d’oro) all’aspirante attore e sceneggiatore Jerome Fontana (Robert Pattinson), nomi splendidi attorniati dallo spettro di un vecchio enfant prodige, deliri assortiti, e pure Carrie Fisher nel ruolo di sé stessa. To the stars. E magari anche oltre.

L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo (2015) di Jay Roach.
Alla fine degli anni ’40, in pieno maccartismo, la carriera di successo di Dalton Trumbo (lavorò per la Columbia, la MGM, la RKO) subisce un arresto quando viene iscritto nella lista nera per via delle sue simpatie comuniste. Pur intraprendendo una lotta contro il governo e i boss degli studios, lo sceneggiatore trova il modo scrivere, sotto pseudonimo, altri film di successo, come Vacanze romane o Spartacus per un giovanissimo Stanley Kubrick.
Ave, Cesare! (2016) di Joel ed Ethan Coen
Barton Fink – È successo a Hollywood, che nel 1991 li ha consacrati come autori (Palma d’oro a Cannes), resta una pietra miliare che metteva in scena la magnifica parabola dello sceneggiatore ebreo interpretato da John Turturro. 25 anni dopo, i Coen sfornano un film forse più piccolo ma ugualmente appassionato e seducente. Se il décor omaggia tutti i generi possibili, dal peplum al musical acquatico di Esther Williams, alla prova collettiva c’è un cast scatenato: le gemelle in stile Elsa Maxwell di Tilda Swinton, la sirenetta Scarlett Johansson, il ballerino Channing Tatum. C’è il “capitano” George Clooney, nella maschera di Baird Whitlock, rapito dal set di un film sull’antica Roma. Ed Eddie Mannix (Josh Brolin), un fixer impegnato a risolvere tutti i problemi e a zittire gli scandali degli attori e registi della Capitol Pictures, da un regista scontento a un cowboy cantante, da un bel nuotatore a un affascinante ballerino. Una parodia delirante sullo star system che è anche un tripudio visivo.
Café Society (2016) di Woody Allen
Un amore surrogato dell’ambizione in un continuo gioco di sovrapposizione che vede l’uno prevalere continuamente sull’altro. L’ambizione, in questo caso, è la scalata nel mondo del cinema del protagonista, interpretato da Jesse Eisenberg, che ben presto si renderà conto quanto l’industria cinematografica sia popolata da cani assetati di sangue e di successo. Con la straordinaria sapienza dell’immagine immortalata da Vittorio Storaro, è un film in cui la perfezione risulta quasi un limite.
La La Land (2016) di Damien Chazelle
Il jazz, un valzer tra le stelle nell’Osservatorio Griffith, un tip tap al tramonto sullo sfondo della Città degli Angeli, dove tutti i sogni possono avverarsi. O forse no. Chazelle eterna il fascino senza tempo del musical hollywoodiano classico e lo consegna rinnovato alle nuove generazioni. Lo fa grazie al pianista Sebastian e all’aspirante attrice Mia, alias la golden couple composta da Ryan Gosling ed Emma Stone, entrambi in stato di grazia. Lei canta meglio di lui (e vince l’Oscar), e City of Stars è già un brano immortale che resta nel cuore. Un sogno a occhi aperti in un tempo imprecisato, tra provini, caffè e cappuccini serviti alle star e qualche piano bar, sullo sfondo di un amore cementato dall’ambizione e ostacolato dal successo.

C’era una volta a… Hollywood (2019) di Quentin Tarantino
Nessuno ama il cinema quanto Tarantino, e si vede. Il suo ultimo film è un’autentica dichiarazione d’amore a Hollywood e al crollo delle certezze post Summer of Love e crimini di Manson. Il cast è l’espressione della stardom hollywoodiana di oggi: Leo DiCaprio è il divo che tutti stanno dimenticando, Brad Pitt (clamoroso) lo stunt-man che divo non lo sarà mai, Margot Robbie la Sharon Tate che diva avrebbe dovuto diventarlo. Se solo le cose fossero andate diversamente. Ma si sa, con Quentin la Storia può essere riscritta. È il potere del cinema.
Hollywood (2020) di Ryan Murphy
La Hollywood sognata da Ryan Murphy in un’ucronia revisionista che vede un’industria più inclusiva fin dalle sue radici, in cui colore della pelle, genere e preferenze sessuali non contano poi più di tanto. Perché «i film non ci fanno vedere il mondo soltanto per com’è, ma per come potrebbe essere», sostiene programmaticamente il regista di origini asiatiche interpretato da Darren Criss. Tra eccessi splendidi, sequenze larger-than-life (come il festino a casa di George Cukor) e una sincerità di fondo e di cuore, la mini-serie non va oltre una simpatica favola patinata a occhi aperti che si infrange contro la ben più dura verità storica dei suoi personaggi.