Forse sta già discutendo di armonie celestiali con Beethoven ed Händel. Oppure sta ballando una danza sufi con i Dervisci Rotanti. O ancora affronta a viso aperto Cristo sul tema della reincarnazione o delle meccaniche divine. O, più semplicemente, sta mangiando una granita con l’amico Manlio Sgalambro. Ci mancherà Franco Battiato, morto oggi a 76 anni. Ci mancheranno la sua intelligenza, la sua ironia, la sua cultura, la sua onestà intellettuale, il suo distacco quasi britannico, certamente non da siciliano che viveva sotto l’Etna. Ci mancherà, soprattutto, la sua curiosità, che lo ha spinto a indagare fra le musiche di tutto il mondo, del passato e del presente, tra filosofie e religioni, fra disparati canoni estetici e stilistici. Nessuno come lui in Italia è riuscito nell’impresa di creare una commistione di registri – musicali, linguistici, estetici – così ben amalgamata da annullare la distanza formale tra ciò che definiremmo “alto” e ciò che invece, come nel caso del pop, siamo soliti definire “basso”, o più semplicemente commerciale.
Con la scomparsa del Maestro di Milo, la canzone italiana perde il centro di gravità permanente. Risalgono a quasi sessant’anni fa le sue prime esperienze musicali a Milano: «Allora era una città di nebbia, e mi sono trovato benissimo», raccontava il ripostese, nato quando il paese ancora si chiamava Ionia. «Mettevo a frutto la mia poca conoscenza della chitarra in un cabaret, il “Club 64”, dove c’erano Paolo Poli, Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Renato Pozzetto e Bruno Lauzi. Io aprivo lo spettacolo con due o tre canzoni siciliane: musica pseudobarocca, fintoetnica. Nel pubblico c’era Giorgio Gaber che mi disse: “Vienimi a trovare”. Il giorno dopo andai. Diventammo amici». Gaber gli fa ottenere il primo contratto discografico e nel 1967 lo invita al programma Diamoci del tu, che conduceva insieme a Caterina Caselli. Il siciliano, con il nome di Francesco Battiato, aveva già debuttato due anni prima con due singoli per la rivista Nuova Enigmistica Tascabile.
Negli anni Settanta abbandona la forma canzone e pubblica due degli album più sperimentali e folli della storia della musica leggera italiana: Fetus e Pollution. È pura avanguardia, che fa scoprire all’Italia le risorse della musica elettronica, le concezioni più avanzate del rock di quelle stagioni e le contaminazioni con i grandi autori di musica contemporanea. Apriva i concerti di Brian Eno, Tangerine Dream, John Cale e Nico, nel leggendario Festival al Parco Lambro lui c’era.
La sperimentazione continua con Sulle corde di Aries, Clic, M.elle Le Gladiator, Juke Box, Franco Battiato, L’Egitto prima delle sabbie, tutti album che precedono il momento della svolta commerciale. Nel 1979 esce L’era del cinghiale bianco, che oltre a venire pubblicato da una major – la Emi – contiene il singolo che prende il nome dall’album, primo vero brano da classifica pop. Dopo Patriots, dato alle stampe l’anno successivo, in cui si trova un’altra delle sue canzoni più famose, ovvero Prospettiva Nevski, arriva il 1981 e con questo anno anche il vero e proprio punto di svolta: La voce del padrone.
Fa un ingresso abbastanza timido nel mercato musicale italiano, ma dopo pochi mesi Battiato passa dall’essere un musicista sperimentatore confinato all’underground e alla nicchia a essere la colonna sonora dell’estate italiana, nonché re della classifica. Un suono elaboratissimo e moderno, ricco di citazioni ipercolte (il mistico George Gurdjieff, Adorno, il gesuita cinquecentesco Matteo Ricci) e stra-pop (Beatles, Rolling Stones, Mina, Milva), astuto e de-ideologizzato nella scrittura da piacere sia a destra che a sinistra e pure al centro. Un disco così non si era mai sentito. Fu un successo da un milione di copie, cifra impensabile oggi, pazzesca pure allora. La musica pop diventa un’arte, non solo intrattenimento. Musica classica – gli archi di Giusto Pio, i cori lirici compresi i falsetti di Giuni Russo – elettronica, punk e pop si uniscono in una combinazione perfetta in capolavori come Cuccuruccuccù, Summer on a solitary beach e Centro di gravità permanente, le cui parole sono entrate nel frasario comune.
Battiato riusciva a dominare le classifiche e a fare ballare la gente con citazioni di Theodor Adorno o con i versi del filosofo Manlio Sgalambro. Recuperava la filosofia sicula in Il cammino interminabile come l’esplosione futurista in Strani giorni. E poi E ti vengo a cercare, L’oceano di silenzio, brani interpretati anche davanti a Giovanni Paolo II (è stato il primo cantante pop a esibirsi in Vaticano), fino alla inarrivabile La cura, tutti pezzi che possiedono l’insondabile ambiguità del doppio significato, rivolti ad amori terreni, così come a pensieri astratti, celesti, spirituali. È una commistione sapiente di ingredienti, allusioni, giochi di parole.
Il prestigio costruito negli anni da Battiato attraverso canzoni e opere, cover, sperimentazioni e poesia, gli ha permesso di rappresentare un immaginario canoro affascinante selezionando dai repertori più diversi, il suo prima di tutto, e da quello di altri autori con le fortunate antologie “floreali” con cui ha rilanciato alcuni classici della canzone napoletana insieme a brani dimenticati della canzone d’autore.
Il grande successo commerciale lo ha sempre affrontato con la sua magistrale ironia e il suo proverbiale e sofisticato sense of humour, senza per altro nascondere un certo imbarazzo, tanto da preferire una vita ritirata nell’eremo di Milo sulle falde dell’Etna. In realtà Franco Battiato è stato uno studioso dagli orizzonti amplissimi che sapeva praticare l’arte della canzone pop ma che, grazie alla sua vasta cultura, usava linguaggi e riferimenti diversissimi, sia in campo musicale che in altre forme di espressione artistica, come il cinema, la pittura, l’opera. «È Franco il più bravo di tutti. Con la mia musica non riuscirò mai a raggiungere i misteri come riesce a fare questo figlio dell’Etna», confessò una sera Lucio Dalla al mio collega e amico Leo Jannacci.
Insieme con Lucio Battisti, il Maestro di Milo è l’autore che più ha influenzato e continua a farlo la canzone pop italiana. Da Colapesce e Dimartino, che hanno portato la sua voce per l’ultima volta a Sanremo con Povera Patria, ai Baustelle sono tantissimi i suoi discepoli. Ai quali Franco Battiato lascia una eredità pesante.
“Lascio agli eredi l’imparzialità,
La volontà di crescere e capire,
Uno sguardo feroce e indulgente,
Per non offendere inutilmente.
Lascio i miei esercizi sulla respirazione,
Cristo nei Vangeli parla di reincarnazione.
Lascio agli amici gli anni felici,
Delle più audaci riflessioni,
La libertà reciproca di non avere legami
E mi piaceva tutto della mia vita mortale,
Anche l’odore che davano gli asparagi all’urina
We never died,
We were never borne!
We never died,
We were never borne!
Il tempo perduto chissà perché,
Non si fa mai riprendere
I linguaggi urbani si intrecciano
E si confondono nel quotidiano.
Fatti non foste per viver come bruti,
Ma per seguire virtude e conoscenza
L’idea del visibile alletta, la mia speranza aspetta.
Appese a rami spogli, gocce di pioggia si staccano con lentezza,
Mentre una gazza, in cima ad un cipresso, guarda.
Peccato che io non sappia volare,
Ma le oscure cadute nel buio mi hanno insegnato a risalire.
E mi piaceva tutto della mia vita mortale,
Noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati.
We never died,
We were never borne!
We never died,
We were never borne!”
(“Testamento”, Franco Battiato, 2012)