Il 3 luglio del 1971, a Parigi, moriva James Douglas Morrison, poeta, musicista, leader e cantante dei Doors. Aveva 27 anni, spesi tra eccessi d’ogni tipo e un progetto di vita ripetuto fino all’ossessione e infine onorato: «Break on through to the other side». Irrompi dall’altra parte, oltre le porte della percezione.
Ad accompagnarlo al cimitero di Père-Lachaise c’erano i quattro amici che gli furono vicini nell’ultimo, malinconico, anno di vita, e due donne importanti: Agnes Varda, la confidente, e Pamela Courson, giovanissima e succube compagna di Jim, che gli sarebbe sopravvissuta per tre anni soltanto. Quella tomba, non lontana dai monumenti funerari di Chopin, Balzac, Bizet, Oscar Wilde e Edith Piaf, è ancora oggi il macabro feticcio di un culto che non accenna a sbiadire: ogni giorno dell’anno, sotto il sole o sotto la pioggia, ragazzi di tutto il mondo, molti dei quali nati quando Morrison aveva già portato a termine la sua irruzione dall’altra parte, sostano lì per ore, suonando la chitarra, accendendo spinelli, bevendo birra e imbrattando le lapidi vicine con i versi delle canzoni dei Doors.
I poster con la sua faccia contendono a quelli di Che Guevara la parte di protagonisti sulle pareti delle stanze dei giovani d’ogni parte del pianeta. Oliver Stone ha tratto dalla sua vita un film fortunato. E lui, Jim Morrison, ha trovato una fama grandiosa in un settore che non era il suo, nella musica, strumento principale di comunicazione e di scontento in un’epoca (gli anni a cavallo tra i Sessanta ed i Settanta) in cui l’“american way of life” era messa sotto processo. Ghetti in rivolta, Vietnam, campus in fermento. Morrison veniva dall’Ucla, università di California, figlio di una famiglia borghese, tipicamente americana: il padre era un militare di carriera, rigido, severo.
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L’avventura dei Doors comincia per caso. Con un disco, Doors, nel 1967, che merita di entrare nella storia della cultura contemporanea. I compagni di strada sono John Densmore (batteria), Ray Manzarek (tastiere e basso), Robbie Krieger (chitarra). Gente in gamba. Ma sono la voce di Morrison e la sua presenza scenica ad andare oltre la sfera pura e semplice del rock. Il nome della band (doors, porte) viene da una frase di William Blake, poeta visionario e apocalittico: «Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo com’è: infinita». Morrison l’aveva letta nel libro di Aldous Huxley The Doors of Perception (Le porte della percezione). Nella voce di Jim, nei suoi agghiaccianti aforismi, nelle sue aggressive performance, non mancavano tracce del decadentismo spaventoso di Edgar Allan Poe, richiami all’inferno dantesco e la denuncia alla Ginsberg. E poi la retorica autodistruttiva della «droga che apre la mente», in voga in quegli anni, diventa in Morrison e nei suoi Doors la via colta e intellettuale a un esistenzialismo nichilista, fatto di morte e sesso.
Jim Morrison canta, recita, urla e sussurra il suo melodramma. Che è il manifesto di una sconfitta più profonda di quelle che colpiranno le generazioni dei suoi fan, dal Flower Power al Mouvement. È la sconfitta dell’uomo. Immagini crude, crudeli, metafore grottesche con cervelli «che si contorcono come rospi», con una «nave di cristallo», salvatrice mortale (l’eroina) che lo accompagna nel suo viaggio oltre le porte della percezione. Dove anche l’unica sfumatura vitale, un “sexual power” di inaudito erotismo, si colora di sfumature catacombali.
Non è tutta trionfi la carriera dei Doors. Arrivano anche dischi sbagliati. Spesso le vendite sono insufficienti. È dal vivo che il gruppo sfiora la perfezione, andando a toccare corde che spaventano davvero. «Sono il Re Lucertola, posso fare tutto ciò che voglio», urlò in una celebre performance in cui si autoproclamò “King of the Lizard”. C’è l’assoluto nelle esibizioni della band. Soprattutto di Jim Morrison. Attore di formazione, poeta per vocazione, cantante per bisogno di comunicare. Il rapporto con il pubblico è simile a un amplesso. Sussurra, canta, fino a sfuriate eccitanti. Passa dal suo personale manifesto nichilista, The End, all’allucinazione depressiva di When the music’s over, fino alla follia creativa di Celebration of the Lizard. «Vogliamo il mondo, e lo vogliamo subito!» urla e sfida Jim in When the music’s over, prima di abbandonarsi a un senso di sconfitta: «Cancellate il mio abbonamento alla resurrezione». O al funesto monologo: «La fine… la mia unica amica: la fine».
A un certo punto, la gioia di fare concerti era per lui “finita”. Morrison comincia a bere e a drogarsi oltremisura. Sembra voler lasciare la musica completamente per cominciare a lavorare a una sceneggiatura. «La gioia dei film è il piacere di scrivere», scriveva nei diari resi pubblici oggi dalla sorella Anne Morrison Chewning nel libro The collected works of Jim Morrison. Poi l’estremo, confuso, saluto. «Quale delle mie cellule sarà ricordata. Arrivederci America, ti ho amato».
Le sue poesie e le sue canzoni sono sopravvissute all’olocausto. Lui no.