«Verdi è morto», annuncia un livoroso gobbo della civiltà contadina nella prima scena di Novecento di Bernardo Bertolucci, che si apre su un piano sequenza il 27 gennaio del 1901 – centoventi anni fa – proprio sulle note della maledizione di Rigoletto. Comincia con questo spartiacque tra secoli il romanzo-fiume per immagini con il quale il regista Premio Oscar affresca cinquant’anni di Storia italiana costruendo un’ideale continuità con l’opera del maestro di Busseto. Una sequenza icastica che riconsegna in un sol colpo il ruolo e l’influenza che Giuseppe Verdi – insieme con Manzoni, illustre interprete della modernità romantica – ha esercitato nella cultura italiana.
Lo sapeva bene Bertolucci che sin dai tempi di Prima della rivoluzione (presentato anche a Taormina nel ’65) e La strategia del ragno attinge ad Attila, Un ballo in maschera, Il trovatore e Macbeth. E la varietà di dinamica e agogica diventa priorità anche in questo superbo poema epico apertamente ideologico, kolossal d’autore e melodramma politico in bilico tra Marx e Freud, costruito tutto attorno a protagonisti archetipici, rifacendosi alle lezioni di Verdi, di Shakespeare, di Brecht e del cinéma-vérité. Un utilizzo transmediale del repertorio che s’ispira al taglio narrativo e alla forza corale dei grandi pannelli operistici e che, con la carica emozionale e la tipizzazione esasperata dei personaggi, approda a una vibrante pellicola sulla grande utopia collettiva della rivoluzione contadina nella Bassa emiliana.
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A fronte di un così illuminato e innovativo impiego delle pagine verdiane già nel lontano 1976, è forse questo il più grande limite della nuova produzione di Rigoletto, presentata l’11 agosto al Teatro Antico di Taormina nell’ambito del BellininFest: portare in scena un titolo e farlo alla vecchia maniera, un po’ sterile e fine a se stessa, senza riuscire a cogliere, al di là dei limiti oggettivi e con soluzioni sceniche banali, il tratto ideale dell’evocativo linguaggio musicale e di porlo a servizio dell’impianto materiale e storico della rappresentazione teatrale.
La perplessità sorge spontanea perché, se l’unica giustificazione del titolo in seno a un festival dedicato a Vincenzo Bellini era supportare una riflessione critica che vuole il Cigno etneo nel ruolo iconico di precursore sul piano dell’innovazione della drammaturgia musicale, questo dichiarato intento non trova poi riscontro né nella mise en scène né in ulteriori approfondimenti di natura musicale. Ma soprattutto perché il Rigoletto di Leo Nucci, con la direzione di Plácido Domingo, vede queste grandi stelle della lirica confrontarsi certo con le difficoltà del contesto e, nel tentativo di ammantarsi di una veste tradizionale e programmaticamente rispettosa della fonte letteraria, si impantana in una forma drammaturgica che non sempre tiene conto della convergenza tra il regime tragico del dramma classico – che comincia a mostrare i primi segni di cedimento e introspezione nell’impianto shakespeariano – e la concezione della melodia nella forma dell’azione. Sfugge, in questo senso, quale fosse il fulcro della lettura interpretativa: se complessiva, del dramma di passione, tradimento, amore filiale e vendetta quale è il primo titolo della trilogia popolare; o particolare, ponendo lucidamente in evidenza le tensioni sociali, l’ambiguo rapporto con il potere e la subalterna condizione femminile, così come un aspro contrasto tra generi, registri e sentimenti, tra il sublime e il grottesco, che caratterizza la fonte letteraria di Victor Hugo.
La regia del baritono che ha indissolubilmente legato la propria carriera al ruolo del gobbo è essenziale e senza soluzioni d’effetto. L’unico elemento di novità che conferisce un relativo dinamismo a uno spettacolo assai statico e monocorde è dato dall’alternarsi di quinte mobili, girevoli e polivalenti che si limitano a iscrivere, delimitare e caratterizzare la scena e gli ambienti, siano ora le sale del palazzo nobiliare, ora la taverna di Sparafucile. Un allestimento che suggerisce in tutto una ripresa e che invece è realizzato per l’occasione da Carlo Centolavigna, senza particolari sfarzi e ricercatezza nell’attrezzeria. Una confezione scenica dalle architetture poco opulente e un po’ anguste, che non assolvono ad alcuna funzione descrittiva di interni o esterni, tantomeno della “deformità”, del libertinaggio, della corruzione – come la maledizione anch’essa morale – della corte di Francesco I, re di Francia al principio del XVI secolo. Lo stesso può dirsi per i costumi di Artemio Cabassi che, oltre agli eleganti abiti del Duca nel momento della sua sortita e alla cappa variopinta del buffone, presentano fogge ricercate appropriate a un qualsivoglia generico dramma in costume, riconducibile a epoche varie. Sotto perfettibili tagli di luci calde che illuminano la più torrida delle notti estive taorminesi, questo Rigoletto enfatizza il fatalismo e il tema della maledizione e, nel montare della tempesta, l’irrazionalità della superstizione, senza mai cogliere tuttavia l’essenza scandalosa e trasgressiva del soggetto.
Sul podio, a dirigere l’Orchestra del Teatro Massimo Bellini, c’è Plácido Domingo: la resa musicale dell’esecuzione e l’approccio all’opera sono tutt’altro che memorabili. Non stacca gli occhi un solo istante dalla partitura, la segue con la stessa trepidazione di chi ne fa una lettura a prima vista: eppure ne hai interpretato ben tre ruoli – Borsa, il Duca, infine Rigoletto. Ma per lui è come se fosse un campo vergine, ne propone una lettura di sorprendente inerzia interpretativa, carente per incisività e vigore, incapace di mediare tra tensione narrativa, parte strumentale e attenzione alle ragioni del canto: si pensi, ad esempio, al turgore degli ottoni nel Preludio o al lamento degli archi nella scena che segue l’aria del Duca e precede l’invettiva di Rigoletto. Si pensi, ancora, alla necessità di conciliare, nella continuità musicale e drammatica, il respiro della melodia e il deflagrare dei momenti di assoluto, altissimo teatro musicale.
La dimostrazione purtroppo arriva alla fine del II atto, quando Nucci decide di bissare la stretta, la celeberrima “Vendetta” – lo fa sempre, praticamente per default – Domingo non si raccapezza, dà indicazioni contraddittorie all’orchestra: ed è subito Schönberg. Per fortuna ci pensa Nucci a fermare tutto e riprendere in mano le redini della situazione. E per fortuna l’Orchestra e il Coro del Bellini (nella sola componente maschile, preparata da Luigi Petrozziello) vanno col pilota automatico, con opere del grande repertorio come questa: perché Domingo non supporta i cantanti, non li accompagna, non ne segue respiri ed esigenze. Ma sono troppe fortune in una sola volta…
Leo Nucci è il suo Rigoletto. Scenicamente non può più sovrapporsi e identificarsi nel ruolo che ha impersonato per più di 550 recite ma si ostina a farne un personaggio sempre sopra le righe, una creatura propria, una versione che interpreta a suo modo: anche se gigioneggia, caratterizzato da un trucco espressionista, anche se il declamato scivola nel parlato, l’intonazione è precaria, la voce ha perso corpo e smalto.
Nonostante il carisma e la buona volontà. Accanto a lui Federica Guida restituisce una Gilda bamboleggiante che, con discreta proiezione, non sempre domina il fraseggio e i passi di agilità, cogliendone la metamorfosi negli accenti drammatici più corposi. Necessita di un’evidente maturazione del personaggio, soprattutto sotto il profilo musicale, che probabilmente arriverà con gli anni. Brilla la stella del Duca di Mantova di Stefan Pop, perfettamente a suo agio in un ruolo che restituisce appieno grazie alla luminosità di un timbro mediterraneo, alla facilità dell’emissione, alla schiettezza del registro acuto. È il migliore, lo sa e non perde occasione per farlo notare. Convince lo Sparafucile tonante di Antonio Di Matteo, da rifinire nel registro acuto, mentre Anastasia Boldyreva s’immedesima con convinzione nel ruolo di Maddalena. Completano il cast il potente Monterone di Gabriele Sagona e la morbida Giovanna di Maria Russo, insieme alla folta cornice di comprimari.
È, insomma, una festa di Nucci e Domingo, la cui età, sommata insieme, più o meno coincide con la distanza che ci separa dalla creazione di Rigoletto. E tuttavia, basta la presenza di due storiche guest stars in cartellone a sancire il successo di una rappresentazione? È sufficiente, semmai, a guadagnarsi il favore di una destinazione popolare e di un pubblico plaudente e non fidelizzato, pronto a perdonare una drammaturgia fatta di pose stucchevoli e stereotipate. A emergere, del resto, già dalla scelta dei due mattatori a capo dell’operazione, è una concezione del panorama operistico quanto mai reazionaria, vicina a un modo manieristico di portare in scena il teatro per musica. Ben lontano da recenti riletture contemporanee, quanto da innovative rivoluzioni, in fin dei conti, questo Rigoletto – come il suo protagonista – va incontro al suo inesorabile destino, senza che mai arrivi un coup de théâtre che lo sottragga dal novero di una banale, ordinaria, stantia messa in scena estiva. Un modo di fare teatro, a conti fatti, godibile ma ormai tramontato.