Astor Piazzola diceva che «ogni musicista deve suonare la musica della sua terra», ma nelle mani dell’abruzzese Daniele Falasca la fisarmonica diventa un’orchestra, un universo senza confini. Il lirismo e la melodia del suo strumento sposano la sensualità del bandoneonista argentino, le sonorità acri dei bistrò alla Richard Galliano, la duttilità di Frank Marocco e la fantasia di Art Van Damme. Falasca infiamma la sua fisarmonica con mille colori, assumendo ora i toni gioiosi e solari dei più vari ritmi sudamericani ora quelli cordiali dello swing, ora la melanconia del tango ora l’“alleria” di Pino Daniele, ora il rigore del classico ora l’intrepida via dell’improvvisazione. Senza dimenticare l’ironia di Gorni Kramer.
«È vero che Chopin e Bach rispecchiavano nelle loro musiche la cultura che respiravano in Germania nel loro secolo», commenta Daniele Falasca. «Mio nonno Sabatino era una fisarmonicista classico e nella sua musica c’era il folklore. Ma poi c’è un’evoluzione anche per la fisarmonica. Che non è più legata soltanto al folk, ma ha avuto uno sviluppo nella classica e poi nel jazz, rivelandosi uno strumento completo che si adatta bene a ogni genere. È giusto mantenere le tradizioni, ma è importante anche avere una evoluzione, ciascuno secondo la propria natura».
Ed è quello che fa Daniele Falasca nel piacevolissimo Triade, un album che ribalta tutti i luoghi comuni sulla fisarmonica, considerato uno strumento malinconico. Triade è, invece, una ode alla felicità. Eccezion fatta per Chet, brano dedicato al trombettista triste, è un disco fresco, allegro, divertente, intrigante, che fa muovere i piedi. «Il mio genere è gitano, mi piace essere brillante, anche perché ho sempre ascoltato sassofonisti e ho sempre immaginato di suonare la fisarmonica come uno strumento a fiato. Quando suono il pianoforte sono invece malinconico».
LEGGI ANCHE: Jon Balke rievoca il mito di al-Andalus
Molto probabilmente anche perché la fisarmonica riporta il musicista di Roseto degli Abruzzi all’infanzia. A quando, all’età di 4 anni, il nonno Sabatino suonava in casa quello strumento curioso: «Mi prendeva le manine e le metteva sui tasti per farmi giocare», ricorda. A 8 anni il piccolo Daniele scriveva già la sua prima mazurka, dedicandola a una sua compagnetta di classe, e la sera si metteva davanti allo specchio immaginando di dirigere un’orchestra. Un amore che fu costretto a tradire con l’inizio degli studi. «A quel tempo la fisarmonica non era considerata in ambito accademico», sottolinea. La nuova amante ha anche lei i tasti, ma bianchi e neri. Una love story lunga vent’anni, fra studio, laurea, concerti di musica neoclassica, attività di turnista per numerosi big del panorama musicale nazionale. Poi, dodici anni fa, durante un concerto a Roma, incontra di nuovo il suo primo amore. È un flusso di ricordi, emozioni, suoni. La fiamma torna ad ardere. «Da allora ho inciso dieci album, quasi uno all’anno», sorride.
Triade è il decimo. Intitolato così «perché in ogni brano ci sono tre idee musicali collegate e perché la mia famiglia è formata da tre membri: mia moglie, mia figlia e io». E perché ad accompagnarlo è un trio, formato da Arturo Valiante (pianoforte), Marcello Manuli (basso) e Glauco Di Sabatino (batteria), ai quali si aggregano la cantante Linda Valori nella cover di What a Wonderful World e, in Città delle Rose, dedica alla sua città, il pianista Vincenzo Di Sabatino, suo ex insegnante di Conservatorio.
Adesso spetta a Daniele Falasca salire sulla cattedra. Dalla sua scuola sono usciti nomi illustri, come quello di Gianluca Ginoble. «Lui è di Montepagano, una frazione di Roseto, gli ho impartito lezioni di piano», racconta. «Poi suo padre ebbe l’intuizione di chiamare Ti lascio una canzone. Qui venivano Torpedine e Tony Renis. Mi chiesero se avessi voluto partecipare come ospite al primo tour italiano de Il Volo».
Non solo Daniele Falasca accettò, ma suonò al fianco del trio degli allora mini-tenori sul palco del Teatro antico di Taormina e rischiò di vincere a Sanremo. «Loro volevano trovare la strada per far breccia anche in Italia dopo aver sfondato in America e stavano cercando una canzone per partecipare al Festival. Io scrissi un pezzo pop per loro, testo e musica. Gli piacque. Poi, però, insorsero delle incomprensioni con l’arrangiatore Celso Valli. Fu allora che Carlo Conti suggerì Grande amore, il brano di un suo amico napoletano», con la quale Il Volo trionfò sul palco dell’Ariston.
La canzone dell’artista di Roseto è tornata nel cassetto. Poco importa. Quello che interessa a Daniele Felasca «non è diventare famoso, ma dare un contributo a svecchiare la fisarmonica, a darle una nuova collocazione, a farla conoscere e apprezzare ai più giovani».