Quando i Black Keys pubblicarono vent’anni fa il loro album di debutto, The Big Come Up, il cantante/chitarrista Dan Auerbach e il batterista Patrick Carney, allora ventiduenni, sembravano due brizzolati musicisti contenti di passare le serate suonando gli standard di Muddy Waters e le cover dei Beatles nel loro seminterrato, senza ambizioni, se non quella di ricreare il suono di una radio AM crepitante. Nulla a che vedere con i loro coetanei più giovani e più fotogenici che riempivano le pagine delle riviste di settore, come gli Strokes, i White Stripes o gli Hives.
Tuttavia, mentre la strada di quei gruppi andava avanti con alti e bassi, rotture e reunion fallimentari, i Black Keys crescevano di album in album, conquistando simpatie con Brothers del 2010 e premi con El Camino del 2011, vincitore del Grammy, e ricablando il suono della radio rock moderna del nuovo secolo con un miscuglio di blues tradizionale, neosoul, rock sudista, psichedelia. Arrivati al loro undicesimo album, intitolato Dropout Boogie, aggiungono un altro elemento al loro suono: il rock classico, o, meglio, i Rolling Stones degli anni Ottanta tagliati con un Captain Beefheart d’annata, al quale è ispirato il titolo dell’album.
Dopo aver reclutato membri di Junior Kimbrough e delle band di supporto di RL Burnside per il ritiro blues del Mississippi Delta Kream dell’anno scorso, i Black Keys hanno portato quello spirito collaborativo anche in Dropout Boogie, coinvolgendo la star dell’underground Greg Cartwright (Oblivians, Reigning Sound), l’hitmaker di Nashville Angelo Petraglia (Trisha Yearwood, Taylor Swift, Kings of Leon) ed il chitarrista Billy F. Gibbons, leggenda degli ZZ Top.
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«Volevamo che le canzoni scorressero quasi inconsciamente, che fossero semplicemente divertenti, un po’ come la metà di loro ci è arrivata», ha spiegato Auerbach, aggiungendo che diverse nuove tracce, tra cui Good Love (con Billy Gibbons), Burn the Damn Thing Down e Didn’t I Love You, sono tutte le prime registrazioni, comprensive delle imperfezioni.
Dropout Boogie è un’altra opera d’arte. Dopo vent’anni, è certo adesso che i Black Keys rimarranno un punto fermo della musica rock americana nel XXI secolo, ma per Auerbach e Carney, niente di tutto ciò ha importanza. Vogliono soltanto stare insieme e suonare. «Sembra incredibile. Un giorno siamo saliti su un furgone e siamo partiti da zero assoluto, meno di zero. Abbiamo guidato da Akron a Seattle per suonare davanti a nessuno. Adoro suonare con Pat, è ancora la persona più divertente che abbia mai incontrato in vita mia. E lo dimostra il fatto che andiamo ancora d’accordo e riusciamo a fare musica. È come se nient’altro contasse davvero».
Come i Black Keys anche il leggendario chitarrista jazz John Scofield prosegue il suo percorso musicale guardando nello specchietto retrovisore. E dopo aver collaborato con grandi artisti come Miles Davis e Joe Henderson ed essere stato leader di svariate formazione, complice anche il lockdown per la pandemia, debutta con il primo album di sola chitarra per la Ecm, andando a ritroso nel passato, alla riscoperta di brani e artisti che hanno influenzato la sua formazione. E il neosettantenne artista dell’Ohio riserva alcune sorprese, come Not Fade Away di Buddy Holly e You Win Again di Hank Williams, pubblicato quando Scofield aveva solo un anno, nel 1952. «Quando ero bambino la chitarra era lo strumento del rock and roll e della musica popolare, questo era ciò che mi interessava», spiega il chitarrista.
È un disco di “amarcord”. L’impegno e l’interesse di John nel corso degli anni sono rivolti verso la tradizione jazz, e qui prende una serie di standard, offrendo interpretazioni uniche. I suoi commenti su ogni canzone sono inclusi nelle note di copertina che accompagnano l’album, con le quali confessa la sua passione per la versione di Kenny Dorham di It Could Happen to You. Ricorda anche la sua prima registrazione, come session man per Gerry Mulligan e Chet Baker in There Will Never Be Another You, esegue una versione particolarmente minimalista di My Old Flame, scritta da Arthur Johnston e Sam Coslow.
Il chitarrista ha riempito una buona parte dell’album con la sua stessa scrittura: brani dalle qualità melodiche che hanno lo stesso carattere senza tempo degli standard jazz. «Non penso mai alle idee quando scrivo musica. La musica strumentale esiste in una parte diversa del tuo cervello, non si tratta di un’idea che può essere descritta con il linguaggio o visivamente. La musica esiste al suo posto», riflette John. Riprende Honest I Do, che aveva originariamente scritto e registrato nel 1991, adesso trasformata in una ballata piena di sentimento, esplorata con toni di chitarra sperimentali. Mrs. Scofields Waltz è dedicata alla moglie, che a sua volta ha dato il nome a Since You Asked, una canzone che Scofield aveva inizialmente registrato con Joe Lovano nel 1990. Trance Du Hour è la sua «versione del jazz anni Sessanta à la Coltrane».
«Penso che ci sia una delicatezza nel suono di questo album che ho acquisito suonando in casa da solo», ha commentato. «Sono così abituato a suonare con una band, ed è quello che amo fare, che comporta una certa muscolosità. Questa è scomparsa ed è stata sostituita, credo, da questo approccio più delicato nell’individuare la bellezza delle corde».