Entrare a Rafah e liberare più ostaggi possibile, costi quel che costi. La linea Netanyahu è chiara e l’esercito israeliano è già passato all’azione: nonostante gli appelli della comunità internazionale le forze armate israeliane hanno effettuato un grosso bombardamento su Rafah. Il bilancio è sanguinoso: 100 morti che vanno ad aggiungersi ai circa 28mila dall’inizio dell’operazione militare.
A Rafah sono attualmente ospitati circa 1,4 milioni di palestinesi, che in questi mesi si sono rifugiati nell’estremità meridionale della Striscia di Gaza in seguito alle progressive evacuazioni del resto del territorio, in corrispondenza delle operazioni militari israeliane. Quella di Rafah era l’ultima area definita sicura, ma presto rischia di trasformarsi in una città assediata, da cui le vie d’uscita sicure praticamente non esistono. Israele vorrebbe che i palestinesi, fuggiti da ogni parte della Striscia di Gaza, lasciassero anche Rafah, ma non è affatto chiaro verso quale direzione dovrebbero spostarsi.
Rafah confina a sud con l’Egitto, a ovest con il mar Mediterraneo, a est con Israele e a nord con il resto della Striscia, per lo più distrutto e attualmente occupato dall’esercito israeliano. Spostare una tale quantità di persone sarebbe già normalmente complesso: lo è a maggior ragione durante un conflitto. Il governato di Rafah prima della guerra ospitava circa 275mila persone sui suoi 64 chilometri quadrati di territorio: già allora era una delle aree più densamente popolate della Striscia di Gaza, che a sua volta è una delle aree più densamente popolate al mondo. Oggi quella popolazione è aumentata di almeno cinque volte e la densità media è stata stimata in 22mila persone per ogni chilometro quadrato, anche se nelle aree cittadine è ancora maggiore.
I palestinesi di Rafah non possono cercare riparo in Egitto, perché il governo egiziano ha più volte ribadito di non essere disposto ad accogliere i rifugiati sul proprio territorio. L’Egitto ha recentemente spostato 40 carri armati e personale militare vicino al confine e ha fatto presente per vie diplomatiche che riterrebbe responsabile Israele di una eventuale crisi umanitaria sul proprio territorio. Due funzionari egiziani hanno dichiarato all’Associated Press che l’Egitto potrebbe sospendere il trattato di pace se le truppe israeliane invadessero Rafah ed esser costretto a entrare nel conflitto. Ma Netanyahu è disposto a tutto: «Rafah è l’ultima roccaforte rimasta di Hamas dopo più di quattro mesi di guerra e che l’invio di truppe di terra è essenziale per sconfiggere il gruppo».
Era il 1977 e Begin, il nuovo primo ministro israeliano, si oppose alla cessione di qualsiasi parte del territorio che Israele aveva conquistato dieci anni prima durante la guerra in Medio Oriente del 1967. Quelle terre includevano la penisola egiziana del Sinai. Egitto e Israele avevano combattuto quattro grandi guerre, l’ultima nel 1973. I colloqui culminarono negli accordi di Camp David nel settembre 1978 e in un trattato di pace l’anno successivo. Sulla base del trattato di pace, Israele accettò di ritirarsi dal Sinai, che l’Egitto avrebbe lasciato smilitarizzato.
Se l’Egitto dovesse annullare l’accordo, potrebbe voler dire che Israele non potrà più considerare il suo confine a sud come un’oasi di calma. Anzi, rafforzare le forze lungo il confine con l’Egitto rappresenterebbe senza dubbio una sfida per l’esercito israeliano già al limite. Ma ciò avrebbe gravi conseguenze anche per l’Egitto. L’Egitto ha ricevuto miliardi di dollari in assistenza militare dagli Stati Uniti dopo l’accordo di pace. Se l’accordo venisse annullato, ciò potrebbe mettere a repentaglio il finanziamento. Un massiccio rafforzamento militare metterebbe a dura prova anche l’economia già in difficoltà dell’Egitto. Alexander ha affermato che se Israele attaccasse Rafah, minaccerebbe di trascinare l’Egitto nelle ostilità, il che sarebbe catastrofico per l’intera regione. L’ Egitto ha sottolineato che «continuerà le sue comunicazioni con varie parti per raggiungere un cessate il fuoco immediato, far rispettare la tregua e consentire lo scambio tra ostaggi e detenuti, invitando le potenze internazionali a fare pressione su Israele affinché risponda a questi sforzi ed eviti di adottare misure che complichino ulteriormente la situazione e arrechino danno agli interessi di tutti, senza eccezioni».