Dopo aver scritto la sua autobiografia, Born To Run, e aver prodotto il suo spettacolo teatrale, Springsteen on Broadway, sembrava che il “boss del rock” potesse essere pronto a uscire dalla ribalta mediatica per un po’ di tempo. Invece, per i suoi 70 anni (li festeggia il 23 settembre) si è voluto regalare la seggiola del regista per realizzare un film che documenta il suo recente album Western Stars, con canzoni inedite (ad eccezione di una entusiasmante cover di Rhinestone Cowboy di Glen Campbell che arriva alla fine del film) con le quali continua a raccontare sé stesso e l’America. È l’ultima tappa di «una storia che non avevo mai rivelato prima», che include il libro di memorie e lo show a Broadway. Il docu-film, presentato in anteprima al Festival di Toronto, uscirà il 25 ottobre negli Usa e subito dopo in Italia.
Aiutato da Thom Zimny (colui che ha diretto tutte le produzioni video di Springsteen negli ultimi anni), il Boss ha girato gran parte del film nel cavernoso e buio granaio ultracentenario che si trova nella sua proprietà a Colts Neck, nel New Jersey. Per diverse sere, ha suonato tutte e tredici le tracce dell’album pubblicato lo scorso giugno, davanti a un piccolo pubblico privato. Le canzoni, composte nello stile luminoso del pop country degli anni Settanta della California meridionale, sono ritratti da crepacuore, e uno di loro, There Goes My Miracle, raggiunge una splendida vetta di malinconia.
«Quello che vedete sullo schermo non è un concerto», ha precisato Bruce in una recente intervista. «È un film, il mio mettere ancora più a nudo l’anima per capire quali sono i suoni verso cui tende quel vagone scricchiolante del mio cuore. Durante la registrazione del concerto di Western Stars sognavo di condurre un’orchestra di trenta elementi che facesse da contraltare alla solitudine del mio show a Broadway, un palco che ho condiviso solo con mia moglie, Patti Scialfa, per la durata di appena una canzone, Brilliant disguise». Nel film il sogno si concretizza, e il rocker si trova al suo fianco il caldo afflato strumentale dell’orchestra, e Patti accompagna il suo uomo solitario in cerca di redenzione e d’amore per tutta la durata del concerto. «I connotati da rocker restano. Sono il mio pane» tiene a sottolineare il Boss. «È la dimensione intima a inghiottire i miei stivali winklepicker come sabbie mobili, assieme ai motel e ai cantastorie ubriaconi. Lo canto nel brano d’apertura, Hitch Hikin’: “Maps don’t do much for me, friend”. Le mappe non fanno per me, amico. Rimarrò un vagabondo». Un granello di cenere e polvere che passa di strada in strada a portare la sua opera nel cuore dell’America.
È questo il segreto di questo neo-settantenne nato e cresciuto nel “periferico” New Jersey, l’ascella d’America. Springsteen è l’incrocio perfetto tra Elvis Presley e Bob Dylan, l’intera mappa del dna musicale americano, con il quale descrive, come nessun altro, il rovescio del sogno a stelle e strisce. «Gran parte del rock è lirico, la produzione di Springsteen è invece prevalentemente narrativa», commenta Alessandro Portelli, americanista e autore di Badlands (Donzelli). «Springsteen ha una straordinaria capacità di racchiudere, nei tre-quattro minuti di una canzone, un’intera storia, con psicologie definite, sviluppo narrativo, esito drammatico. Storie che sono sempre capaci di espandersi perché piene di possibilità». Questa capacità narrativa si sposa, secondo Portelli, a un altro grande merito dell’artista americano: «Aver riportato la musica rock alle sue origini sociali, di averle restituito l’ambiente operaio che lo ha generato. Ma con una particolarità: Springsteen parla di quel mondo, pur non appartenendovi. Canta, ad esempio la vita di suo padre e dei suoi amici, la vita della fabbrica, con una distanza che gli permette di avere uno sguardo “altro” rispetto a quella realtà».
È questo il segreto grazie al quale il Boss ipnotizza in ogni angolo del pianeta. E poi c’è «il rapporto con il pubblico», secondo il filosofo Luca Giudici, autore di Abbagliati dalla luce (Zona). «Springsteen ha sfondato la “quarta parete” quella che separa l’artista e chi lo ascolta: il pubblico è parte della band, è parte integrante dello spettacolo» ha spiegato Giudici in una intervista al quotidiano Avvenire. «Altri artisti, mostri sacri come Bob Dylan o Miles Davis, potrebbero suonare anche senza un pubblico. Springsteen no, la sua musica respira nella dimensione corale che solo il suo pubblico gli restituisce. Il Boss non mantiene una distanza ma letteralmente si tuffa, si immerge nella sua gente. Il suo corpo, la sua musica il suo linguaggio dicono all’unisono la stessa cosa: che lui, l’artista è uno di noi».
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Springsteen è un poeta, ma di quelli della nuova era, creati dalla cultura rock e quindi votati all’essere voce di grandi masse. In questo è la sua forza, così come nel fatto di rappresentare una grande tradizione americana. A conquistare tutti è la sua innocenza, quella autenticità cui si ha voglia di credere al di là di tutti i filtri imposti dallo show business. Il suo volto è drammaticamente sincero, così come la sua voce, e questo lo rende una leggenda in un’era in cui la leadership in altri settori ha perso ogni credibilità. Se oggi non si vuol più credere al politico, c’è una purezza rock che mantiene ancora intatto il suo fascino. La sua storia è davvero un pezzo di sogno Americano, un ragazzo squattrinato del New Jersey che impara a suonare ascoltando il primo rock’n’roll con la radiolina a transistor, comincia nei club da cento persone, incide il suo capolavoro, Born to run, nel 1975 quando il contratto discografico era arrivato alla scadenza e aveva solo due concerti in programma, si conquista il pubblico delle arene, poi, grazie a Born in the Usa, anche gli stadi e lo status di star. Un’ascesa graduale, conquistata a fatica e senza compromessi.
Bruce è sempre stato un uomo sano, un lavoratore instancabile, uno che ha sempre creduto in quello che fa e che ha saputo dare alle sue storie una dimensione epica. Il pubblico lo ama perché è credibile, perché difende principi e ideali di un mondo più giusto e pulito, perché è uno di noi ed è il più bravo di tutti. È così confortante poter vedere un artista che si ama da più di quarant’anni che non è diventato la parodia di sé stesso, che è passato attraverso le tante svolte del mercato seguendo una sua strada, prendendosi rischi sia artistici sia politici. La sua storia, come la sua voce roca, ruvida, sofferta, è l’incarnazione del rock, ma anche il segno di una vitale sopravvivenza, il gesto dell’ultimo degli eroi romantici che con istinto da ribelle e intensità da puritano riesce ad infiammare i giovani. Springsteen è, in fondo, un grande narratore, autore di un’epopea della strada in cui è facile riconoscere la letteratura dell’altra America. Una storia che continua, come ha rivelato in una intervista tv al regista amico Martin Scorsese: «…E poi circa un mese fa, ho scritto quasi un album di materiale per la band. Ed è venuto da solo …». Insomma, “abbiamo un’ultima possibilità per avverare i nostri sogni / per scambiare con delle buone ruote le nostre ali / salta su / il Paradiso ci aspetta lungo il percorso / dai, prendi la mia mano / stanotte cercheremo di raggiungere la terra promessa / Thunder Road, Thunder Road, Thunder Road / Là fuori in attesa come un killer sotto il sole / Thunder Road, Thunder Road, Thunder Road…”.