Il 2021 è stato un anno molto strano, per usare un eufemismo. Con alcuni degli album più attesi delle più grandi star della musica che sono andati un po’ a vuoto, leggi Coldplay, Billie Eilish e Adele, la musica più coinvolgente e innovativa è arrivata dal mondo delle donne. I primi sei posti della Top20 sono occupati da dischi di cantautrici che, più degli uomini, hanno saputo raccontare nei testi e nelle musiche il momento storico. Non è un caso il primo posto, legato all’allarme per le condizioni del pianeta, tema toccato anche da altre artiste. Weather Station, Manutsa e Ethel Cain sono passate dai margini alla ribalta con le migliori uscite della carriera. Più che mai, la grande musica era così facile da trovare, bastava ascoltare con attenzione, senza rivolgersi a talent.
Questi sono i 20 migliori album dell’anno:
1. “Ignorance” The Weather Station
Tamara Lindeman, in arte The Weather Station, mette in connessione Bob Dylan con l’art-rock surrealista britannico della fine degli anni Ottanta, da Kate Bush ai Roxy Music dell’era Avalon, da Christine McVie dei Fleetwood Mac ai Talk Talk ed ai New Order. Sembra di essere davanti a una Joni Mitchell millennial che interpreta versioni jazz di LCD Soundsystem o dei National. È un disco che denuncia l’ignoranza della cultura occidentale. Un disco sulla crisi climatica travestito da breakup album, dove invece di un amante il protagonista è un pianeta morente. Un album elegante e misterioso che parla della fragilità di ogni cosa, di trovare la bellezza nella natura mentre tutto cade a pezzi. E quando è difficile scegliere quale sia la migliore canzone dell’album, vuol dire che questo disco è un capolavoro.
2. “Parru cu tia” Manutsa
Ha davvero il fuoco nel cuore e una voce rasposa e limpida allo stesso tempo. Può passare disinvoltamente dalla tarantella al reggae, sa essere drammatica e sensuale, rilancia la denuncia di Ignazio Buttitta ed evoca l’oscura magia del suono di Bristol. Ha la forza di raccontare da una ottica femminile il presente con tutte le sue storture, con il coraggio di ribellarsi e l’urgenza di “canciari”.
3. “Inbred” Ethel Cain
Nelle prime forme di canto gregoriano, i cantori di chiesa scalavano più note in sillabe melismatiche. L’effetto è ipnotico; una singola parola ondeggia fino a quando il suo significato originale si fonde con il suo suono: in alcuni casi, si pensava che inducesse uno stato di trance nel suo pubblico. Per Hayden Anhedönia, che interpreta un personaggio inventato dal nome biblico di Ethel Cain, quei ritornelli consacrati facevano parte della vita quotidiana fin dall’infanzia. Cresciuta in un’isolata comunità battista del sud della Florida, Ethel Cain si appoggia alla sua infanzia religiosa restrittiva, innesta incantesimi multi-note su synth vetrosi che ricordano l’organo di una chiesa, la sua voce echeggia come in una cattedrale vuota. L’effetto è davvero emozionante.
4. “If I Can’t Have Love I Want Power” Halsey
Seducente e spettrale, affronta il brivido e il terrore di ottenere ciò che vuoi: è un’altra prova convincente, la più forte, di Halsey, ventisettenne cantante e compositrice americana prodotta da Trent Reznor e Atticus Ross. Gli ex Nine Inch Nails, nelle tracce di apertura, creano una favola gotica psichedelica – ciuffi di vento, pianoforte glaciale, sfocatura panoramica del sintetizzatore, una corrente sotterranea agitata come un “beat minaccioso” – mentre Halsey canta della solitudine, delle corone e di Giuda (“Gesù aveva bisogno un weekend di tre giorni/Per risolvere tutte le sue stronzate”), ma soprattutto su un pervasivo senso di sventura. “Non aspettarmi”, grida nel caos, “non è un lieto fine”. Reznor e Ross trascorrono la maggior parte dell’album a sperimentare, sfrecciando tra i generi e accennando a un pericolo che non è mai completamente individuato. Riempiono canzoni di urla riverberanti e sirene stridenti, il suono è a volte abrasivo, ma raramente scioccante. Si oscilla tra la batteria frenetica e chitarra, con Dave Grohl dietro il kit, e un’inflessione cyborg che trapela dall’iperpop. “Sono stata corrotta”, canta Halsey su Lilith, e uno spasmo sommerge l’ultima nota.
5. “Little Oblivions” Julien Baker
L’album di debutto della cantautrice e produttrice del Tennessee, Sprained Ankle del 2015, ha raccontato storie strazianti di abusi ed eccessi di sostanze con una voce soffusa su poco più di una scintillante chitarra acustica e un’infarinatura di pianoforte. Il suo seguito, Turn Out the Lights del 2017, ha aggiunto fiati, archi e altri svolazzi, ma al suo centro emotivo c’era un personaggio solitario che si convinceva semplicemente a «non perdere altri appuntamenti». Con il terzo album, Little Oblivions, la sua narrazione auto-lacerante tesse una tela più ampia. Forse il successo di Drivers license di Olivia Rodrigo ha trasformato l’introspezione emotivamente specifica delle giovani donne nell’ultimo zeitgeist del pop, ma Baker ha sempre fatto questo. La venticinquenne è diventata di fatto un portavoce generazionale di chi è cresciuto gay, cristiano e hardcore nel sud americano ed è sopravvissuto alla dipendenza da adolescente. Sebbene Baker suoni quasi tutti gli strumenti da sola, il cambiamento più grande in Little Oblivions è il suono da band completa.
6. “Volevo fare la rockstar” Carmen Consoli
Quando Carmen Consoli imbraccia “una chitarra vera” e riempie di ironia e sarcasmo i suoi versi, riesce ancora a graffiare come quella “bambina impertinente” «che voleva fare la rockstar, difendere Caino e affrontare l’uomo nero». Mago Magone e L’uomo nero sono due degli episodi più potenti di “Volevo fare la rockstar”, album in cui i temi dell’amore e dello smarrimento, della famiglia e dell’inesorabile scorrere del tempo s’inseriscono in un affresco del Paese dalle tinte pastello e dallo stile fiabesco. Anche perché il sogno della dolce scolara in grembiule bianco che appare sulla copertina del disco e che «immaginava il tavolo della cucina come un palco perfetto» non si è concretizzato. Un velo di malinconia avvolge l’intero album: al posto della “cantantessa” oggi c’è una mamma, una signora matura di 47 anni che sfoglia nostalgicamente l’album dei ricordi, guardando il futuro attraverso gli occhi del figlio (che appare in voce e in video), al quale impartisce lezioni di vita, valide per tutti.
7. “Maharia” Alessio Bondì
Colori pastello, tenui, delicati, solari, malinconici. Arancio, giallo, verde, rosso, blu. Scompare il “nivuru” che caratterizza il precedente album nei ritmi e nelle atmosfere. Resta una base soul, ma la musica spazia dal nu-folk alle orchestrazioni hollywoodiane, dai Caraibi alle colonne sonore dei film anni Cinquanta. Sopravvive lo spirito di Jeff Buckley, che esce dalle corde della chitarra e dalla voce in Ddà fuori, uno di quei momenti malinconici che esaltano il disco. Come la straordinaria Ave Maria al contrario. Maharia, insieme agli album I Mortali di Colapesce-Dimartino, fusion. di Davide Shorty e My Mamma de La Rappresentante di Lista, è un altro segnale del risveglio musicale siciliano.
8. “Diavoli storti” Marcello Murru
Personaggio di culto, lupo solitario, amato da critici, sconosciuto al grande pubblico, il cantattore sardo è una delle voci più alte della musica d’autore italiana. Paragonato a Paolo Conte, Tom Waits e Leonard Cohen, è voce narrante e cantante. Diavoli storti è un viaggio nella vita, dai ricordi dell’infanzia ai problemi della vecchiaia, dai momenti di gioia a quelli drammatici. Marcello Murru ha dovuto confrontarsi con la malattia, che lo ha trascinato nel buio, nella solitudine e che non gli ha concesso di avere una continuità nella sua attività artistica. Diavoli storti è un album che ha un «abito di nostalgia, una propensione per la notte e per i suoi fantasmi alcolici». Cinico, sarcastico e neorealistico, racconta la deriva dei nostri tempi, che hanno smarrito i grandi sogni, che hanno trasformato i sentimenti veri in ipocrita esibizione, compreso il dolore. Persino la morte, come nella cruda iperbole di Lungo un cammino di numeri: “… Sembra che ormai per morire / ti devi filmare / e se non sei fotogenico / ormai non si muore. / O che sia fotogenico / almeno il dolore. / Tra un po’ potrai sceglierti / una location per morire …”.
9. “Still Moving” Justin Adams e Mauro Durante
Blues, pizzica, punk, taranta, canzone d’autore, ritmi nordafricani, chitarra, violino e tamburi sono gli elementi dell’album del chitarrista di Robert Plant e del leader del Canzoniere Grecanico Salentino. Un viaggio intimo e sorprendente che racconta del desiderio di muoversi e di entrare in contatto col mondo, oggi più che mai. Due musicisti viaggiatori, che devono partire anche solo per incontrarsi, trovano il modo di continuare a sognare e a condividere, nonostante le difficoltà della pandemia.
10. “Afrique Victime” Mdou Moctar
Nel mondo di Mdou Moctar, riff e ritmo contano ma l’assolo la fa da padrone. Il suo radicamento nello stile nomade tuareg (desert blues) lo ha reso popolare nel circuito dei matrimoni del Niger, ma il chitarrista, fan di Van Halen e degli ZZ Top, rompe le convenzioni seguendo ostinatamente la punta delle dita in un posto nuovo. Un decennio di perfezionamento ha portato ad Afrique Victime, il documento più completo della capacità di Mdou e una dei più elettrizzanti del 2021: vortici psichedelici, appelli all’unità del popolo africano, musiche ipnotiche, arriva dall’Africa la rinascita del rock.
11. “Blue Weekend” Wolf Alice
Sono i Måneskin d’oltre Manica? Qualche similitudine c’è, tant’è che sono stati i primi a complimentarsi con la band italiana dopo la vittoria all’Eurovision song contest. Il retroterra culturale è però diverso e qui la donna è la vera leader. Suoni epici e avvolgenti, qualcuno ha tirato in ballo sia i Cocteau Twins sia Oliver Newton-John, che rende l’idea di un disco di grande atmosfera ma anche diretto, con testi che vanno da “non mi vergogno di essere una persona sensibile” a “voglio scopare tutti quelli che incontro” e musiche che spesso riflettono questo approccio apertamente emotivo. Produce Markus Dravs (Coldplay, Arcade Fire, Florence + the Machine).
12. “The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows” Damon Albarn
Uno degli artisti più geniali dell’era Britpop, ormai indifferente al successo commerciale, torna con un secondo album solista che si trascina in una nebbia malinconica e stordita. È un disco influenzato dalla pandemia e dalla morte nel 2020 del fido collaboratore di Albarn Tony Allen, il cui fantasma incombe sulla title track: «Sembravi immortale… al mio cuore eri il più vicino». I testi sono pieni di ricordi di tempi più felici: bambini che giocano su una spiaggia, edifici abbandonati dove un tempo si tenevano feste.
13. “Lament” Touché Amoré
Nel loro fenomenale quinto album, la band post-hardcore lavora con il famoso produttore heavy metal Ross Robinson e viene fuori con la sua musica più commovente e potente. È una rivelazione attesa da tempo e che rende quest’album una pietra miliare per la band californiana: un album che spazia dai Limp Bizkit ai Counting Crows e che può raggiungere il maggior numero possibile di persone.
14. “Nine” Sault
Non siamo più sicuri di niente, e così quando in giugno il collettivo inglese Sault ha annunciato che Nine sarebbe stato disponibile per soli 99 giorni, cioè fino al 2 ottobre, è sembrata una metafora perfetta di quest’epoca di cose fugaci. E del resto la ricerca della stabilità è uno dei temi chiave del disco. Questo dicono le canzoni: le persone che amiamo, i nostri stati d’animo, le nostre stesse vite non sono meno effimere di quest’album votato all’autodistruzione. Funk, nu-soul, afrobeat, r&b per una band che, seguendo la strada dell’anonimato, sta scrivendo uno dei capitoli che resteranno nella storia della cultura black.
15. “Promises” Floating Points / Pharoah Sanders / The London Symphony Orchestra
È un ecosistema autorigenerante in nove movimenti, un ibrido elettronico/jazz/orchestrale che non sembra composto ma piuttosto monitorato da Sam Shepherd, lo sconfinato compositore elettronico che si esibisce come Floating Points. Che si tratti di arrangiare le onde oceaniche della London Symphony Orchestra o di battere le note su un clavicembalo che sembra stonare leggermente, Shepherd stabilisce una struttura che l’eminente sassofonista free jazz Pharaoh Sanders deve seguire e poi ignorare in modo elettrizzante. Sanders è la voce centrale e la stella splendente dell’album, la sua prima registrazione importante da una paio di decenni e uno dei più grandi doni musicali del 2021. Gira su un’idea, fluttua su un’altra, quindi scatta su una terza, esplorando l’universo che Shepherd ha creato per lui e creando nuovi significati per il suo motivo centrale di sette note incessante e irrequieto. Questa è la gioia infinita di Promises: ascoltare Sanders che si fa strada attraverso questo mondo alieno come se vi fosse appena nato.
16. “Carnage” Nick Cave and Warren Ellis
Lo spirito di Scott Walker riempie questo album stravagante e brillante, che pompa sangue come il testo rosso della copertina. Liberati dai sentimentali e sfarzosi retroscena dei recenti album dei Bad Seeds, Cave ed Ellis si avventurano in una landa desolata orlata di detriti cyberpunk: strani frammenti di produzione si aggirano ai margini di queste canzoni violente. Nella sua seconda metà, il cielo si fa più mite mentre Cave riflette sull’invecchiamento attraverso quattro ballate ambient: “Sono 200 libbre di ghiaccio confezionato / Seduto su una sedia e al sole del mattino” è un’immagine dell’inevitabilità della morte.
17. “Siamo qui” Vasco Rossi
Uno dei migliori dischi del Blasco: dolce e amaro, ironico ed energico, poetico e con un pizzico di follia, come nella migliore tradizione, ma anche più intimo e personale. Uno scrigno rock dentro il quale si trovano echi, influenze e sfumature che hanno fatto la storia del genere. Fotografia impietosa, ben strutturata, malinconica, dell’Italia di oggi scattata da un artista che attinge alla propria maturità.
18. “They’re Calling Me Home” Rhiannon Giddens con Francesco Turrisi
Questo è un grande, bellissimo album, una vetrina per le emozioni dirette e incisive e la versatilità vocale di Rhiannon Giddens, accompagnata dal piemontese Francesco Turrisi, suo compagno nella vita e nella musica. Disco, non a caso, nella cinquina delle nominaton ai Grammy Award. Lei americana, lui italiano, hanno trovato una casa comune sotto il cielo d’Irlanda, dove è stato composto questo lavoro che spazia tra folk, blues, country, gospel e arie liriche. Lei si è formata come cantante d’opera e raggiunge livelli sorprendenti di bellezza e controllo su Si Dolce è ‘l Tormento di Monteverdi e When I Was in My Prime, una canzone folk precedentemente interpretata da Pentangle e Nina Simone. Poi, con O Death, si passa d’un tratto a un gospel blues pesante e funky. Turrisi fa un lavoro propulsivo sul tamburo a cornice. C’è tristezza in un a cappella in comune, Nenna Nenna, una ninna nanna italiana che Turrisi era solito cantare a sua figlia, mentre le strette armonie della coppia si intrecciano con grande sentimento. Questo album è pieno di esempi di abbagliante bellezza.
19. “Collapsed in Sunbeams” Arlo Parks
Fin dai suoi provini, il lavoro della cantautrice e poetessa londinese Arlo Parks ha riscosso molti consensi. Le sue canzoni offrono riflessioni, dolcemente candide, nuotando con una poetica gentile. Nelle interviste, la ventenne parla spesso del suo amore per Allen Ginsberg e dell’ampiezza dei generi musicali che la ispirano: dall’emo ai Portishead. Collapsed in Sunbeams è il suo album di debutto, e sembra il culmine di queste influenze.
20. “As The Love Continues” Mogwai
Dopo venticinque anni, dieci album in studio, una dozzina di EP e abbondanti colonne sonore, le impronte digitali dei Mogwai sono diventate facili da riconoscere. Man mano che sono diventati vecchi statisti del post-rock – due termini che senza dubbio odierebbero – gli basta gestire pochi accordi e sono praticamente impossibile da fermare. Mantengono ed espandono l’energia dei loro migliori album, mentre aumenta il carico di indefinita tristezza che è stata a lungo il loro segno distintivo. C’è così tanta saudade che gocciola dagli edifici piovosi di questo album, che è praticamente bossa nova di Glasgow.