Tra l’inizio e l’oggi ci sono cinquant’anni e una serie letteralmente impressionante di pietre miliari del rock. Bisogna sovrapporre il Brian Eno ventiduenne che, nei primi mesi del 1970 alla fermata metro di Elephant and Castle, disse «sì, ok, entrerò a far parte dei Roxy Music» al signore che il prossimo 15 maggio compirà 72 anni e che, nel suo studio di Nothing Hill, continua, notte dopo notte, nota dopo nota, a cesellare suoni e armonie.
Tra l’inizio e l’oggi c’è una delle carriere più feconde della musica contemporanea. Perché tra quelli ideati, quelli realizzati e quelli prodotti, il numero di capolavori su cui c’è impresso il nome di Brian Eno è sconfinato. Il glam, la “sua” musica ambient, i dischi realizzati con David Bowie, Devo, Talking Heads, U2, Coldplay. Niente male per chi continua a definirsi un “non-musicista”. E che da oggi entra nel tempio della musica, nella Deutsche Grammophon, l’etichetta gialla che pubblica i dischi di Bach, Beethoven e dei più noti direttori d’orchestra dell’ultimo secolo.
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L’occasione è Mixing Colours, diciotto paesaggi sonori disegnati per la prima volta insieme con il fratello Roger. Un disco che segna una nuova svolta per l’“architetto sonoro” che agli inizi degli anni 70, con i Roxy Music, si presentava ricoperto di piume, occhi truccati, carico di lustrini, quasi immobile ai synth, un’ombra dietro le macchine. Parte da qui la linea flebile che collega tutta la sua carriera: l’anti-narcisismo, il vivere nascosti, l’artista in disparte dietro la musica. Che, fedele a questa linea, deve essere rarefatta, parte dello spazio e non forma che pretende di interpretarlo e di spiegarlo. Il fondamento della sua ambient music è questo: prima un progressivo lavoro proprio sulla forma canzone per neutralizzarla, per sottrarle ogni piega barocca: da Here Come the Warm Jets al capolavoro senza tempo di Before and After Science, un disco fatto di sottrazioni. Togliere tutto fino ad arrivare all’essenza del suono.
Ed è per questo che Eno è stato chiamato da ogni rockstar degna di questo nome apparsa sul pianeta negli ultimi cinquant’anni come collaboratore e produttore. Ogni qual volta c’è stato bisogno di una svolta perché i punti di riferimento – stilistici, etici, estetici – erano scomparsi, ecco Brian Eno. Quando Bowie decise di far convivere rock e avanguardia alla fine degli anni Settanta con la sua trilogia berlinese chiese a Eno di costruire il timbro, il suono, la grana musicale di Low, Heroes e Lodger. Quando gli U2 lanciarono il rock nel nuovo millennio con Achtung Baby, ecco ancora Brian Eno a trasformare in suono quell’ Everything You Know Is Wrong, il principio che guidava la band di Dublino nell’aggiornamento della forma-canzone. Come se Eno fosse considerato custode della possibilità che la musica popolare possa scommettere, forzare i propri canoni per sconfinare nei territori dell’Arte e sottrarsi alle logiche del mercato.
In Mixing Colours Brian Eno mette in contatto la sua ricerca con la musica classica. Le composizioni del fratello Roger evocano lo stile melodico nostalgico di Schubert, mentre il suono di Brian attinge al suo innovativo lavoro concettuale con la musica elettronica e al fascino del potenziale creativo dei nuovi media. «Nell’ultimo mezzo secolo il mondo pop ha sviluppato le enormi possibilità della musica elettronica di creare colori sonori e timbri strumentali inimmaginabili», sottolinea il “non musicista”.
«Ogni strumento è un insieme finito di possibilità sonore, un’isola nell’oceano illimitato di tutti i possibili suoni che potresti fare» prosegue Brian Eno. «Quello che è successo con l’elettronica è che tutti gli spazi tra quelle isole vengono esplorati, producendo nuovi suoni che non sono mai esistiti in precedenza. È stato un grande piacere per me esplorare quell’oceano con le composizioni uniche di Roger».
Tutte le diciotto tracce della registrazione tranne una hanno titoli che richiamano un colore – Celeste, Burnt Umber, Obsidian e Verdigris – paragonabili a quelli spesso associati a dipinti pastello di pittori impressionisti. Insieme creano una profonda meditazione sullo spostamento di tonalità tonali e contrasti nel timbro. La traccia finale, il tormentato Slow Movement: Sand, riporta la musica ai suoi elementi essenziali di colore, timbro e pulsazione.
«Mixing Colors deriva dai nostri interessi artistici, musicali e letterari condivisi per diventare un’opera di autentica collaborazione», aggiunge Roger. «Più ascolti questo album, in particolare con i mondi favolosi che Brian ha creato, più riesci a camminare e ad ambientarti nel suo enorme paesaggio».
Il risultato, però, non è all’altezza dei capolavori di Brian Eno. La maggior parte delle canzoni si basano su brillanti pattern di synth e di piano trattato, una miscela così delicatamente eterea e un po’ ruffiana. Ci sono alcuni spunti interessanti: la seconda metà di Celeste ha un ritornello stupendo. Anche Desert Sand è meravigliosa, un pianoforte inquietante che introduce un tocco di dissonanza, mentre Obsidian ha la solenne, leggermente pomposa, malinconia della migliore musica per organo da chiesa. Ma nel complesso, l’album è troppo inoffensivo per lasciare una traccia nel tempo. La sua raffinatezza, inizialmente attraente, diventa presto stucchevole e monotona.