La prima volta che mi sono imbattuto nelle Onde Martenot è stato ascoltando l’album A Kid dei Radiohead. Lo strumento fu poi utilizzato anche nei successivi Amnesiac ed Hail To The Thief. È possibile ascoltarne il suono in We Suck Young Blood (canale destro), How To Disappear, The National Anthem, Kid A, Pyramid Song e Where I End And You Begin. In How To Disappear Jonny Greenwood crea una vera e propria orchestra di Ondes, che suona assieme all’orchestra vera diretta da John Lubbock. Si può sentire chiaramente all’inizio, con un accordo stranissimo. In Kid A, invece, Thom Yorke recita il testo parlando attraverso lo speaker delle Ondes, mentre Jonny modula la voce di Thom creando delle note. L’ho ritrovato poi in alcuni brani del disco Marinai, profeti e balene di Vinicio Capossela, suonato da Nadia Ratsimandresy.
Pensavo si trattasse di una sorta di sintetizzatore, e gli effetti sono molto simili, anche se forse più caldi. Ho scoperto dopo che si trattava di un progenitore. È uno strumento nato dalla bizzarra idea di un tecnico radio francese di nome Maurice Martenot (1898-1980), che intendeva creare musica utilizzando le onde radio. La sua ricerca portò alla realizzazione di un elettrofono innovativo, presentato nel 1928 all’Opera di Parigi, che chiamò Ondes Martenot e che è uno dei primissimi sintetizzatori monofonici e sperimentali nella storia, combinando elettronica e meccanica con la fabbricazione artistica di liuterie: uno strumento eccezionale che offre a chi lo suona una gamma infinita di timbri, trame e sonorità. Uno strumento antico, quanto rarissimo, tant’è che i Radiohead non lo portano quasi mai sul palco per la paura che uno strumento così prezioso possa rovinarsi tra uno spostamento e l’altro.
A quasi un secolo dalla sua invenzione, Christine Ott – virtuosa ondista e insegnante polistrumentista al Conservatorio di Strasburgo – mette lo strumento inventato da Martenot al centro di un ambizioso quanto difficile progetto discografico intitolato Chimères (pour Ondes Martenot) che la Nahal Recordings pubblicherà il prossimo 22 maggio. Un album senza precedenti, interamente concepito usando solo il suo Onde Martenot, che Christine Ott ha spesso messo al servizio di altri musicisti, manipolando le onde sonore dal vivo attraverso scatole di effetti e modulazioni sonore esterne allo strumento.
Nelle otto tracce del disco, le Onde Martenot dimostrano di possedere una incredibile tavolozza sonora: suoni eterei, che evocano il canto di sirene, voci celesti, ma anche sonorità industriali, più aggressive. Frammenti di sogni lontani, sussurri di fantasmi, echi di fruscii e sinfonie che un tempo abitavano lo strumento e che sembrano aver viaggiato attraverso i secoli senza perdere il loro potere. Christine Ott racconta un viaggio cosmico con colori cinematografici, facendoci scoprire uno strumento «sensuale, molto reattivo, carnale», spiega l’artista. «La creazione stessa dei suoni deriva da improvvisazioni ed è legata al contatto fisico con lo strumento».
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«Ho cercato per quasi dieci anni questo strumento», dice Christine Ott che si è formata attraverso orchestre italiane, di musica classica e poi contemporanea. «Quelli vecchi costavano circa 45.000 franchi. Oggi sul palco uso un’ondéa con pedali per chitarra elettrica che vale circa 15.000 euro. È diventato ancor più raro da quando è stato utilizzato dai Radiohead, suscitando una grande curiosità tra musicisti e ingegneri del suono. La Francia rimane la patria delle Onde Martenot, davanti a Canada e Giappone».
Nel passato Christine Ott ha trovato il futuro. «Ammetto di non avere un buon rapporto con i computer e con la tecnologia. Forse sto vivendo un blocco mentale con tutto questo. A volte mi sento come un vecchio dinosauro». E questo passato che sconfina nell’attualità la professoressa Ott lo insegna al Conservatorio di Strasburgo a una dozzina di studenti, alcuni dei quali provenienti da molto lontano. Per questo impegno nel 2019 ha ricevuto un premio per i suoi seminari di improvvisazione e composizione.
Intimamente legata al cinema – ha creato molti concerti cinematografici apprezzati a livello internazionale (Tabu di Munau, 2012; Nanook of the North di Robert J. Flaherty, 2019) e ha composto colonne sonore per film – il suo sogno è quello di poter un giorno collaborare con Thom Yorke e con il Quartetto di Balanescu.
Se l’artista francese viaggia nel cosmo sfiorando stelle elettroniche e accarezzando pianeti incandescenti, gli Autostoppisti Del Magico Sentiero cercano il futuro nelle paludi del basso Friuli, zone di antico passaggio di popoli, muovendosi tra folk, avanguardia, jazz, rumorismo, blues e, soprattutto, letteratura. Perché le cinque tracce dell’album Sovrapposizione di Antropologia e Zootecnia, pubblicato da New Model Label, sono riflessioni che prendono spunto dai diari di Bruce Chatwin per arrivare a un ovile sovrapposto a un giardino, a una lingua originaria, Paleoword, a un mondo fatto di passi ritmati su sentieri antichi, come quelli dei canti umani che accompagnano la civiltà nomade sin dagli albori.
Gli Autostoppisti Del Magico Sentiero è un progetto che ricorda i Mercanti di Liquore di Marco Paolini per l’interessante fusione tra recitazione e musica sperimentale, monologhi e suoni che colpiscono il cuore e il cervello. Fabrizio Citossi (chitarra), Martin O Loughlin (didgeridoo) e Marco Tomasin (tromba) sono protagonisti di un viaggio iniziatico alla scoperta di sonorità ancestrali, di parole disperse nel vento, che si apre con un testo scritto dal chitarrista, per continuare con il recitare teso ma composto dello scrittore/attore Angelo Floramo, che cita “Le vie dei canti” (scritto da Bruce Chatwin nel 1953), e con le trame oniriche in chiave free di una leggenda della scena jazz italiana, quel Giancarlo Schiaffini che incrocia il suo trombone con il potente e virtuoso contrabbasso di Giovanni Maier. Il tutto frullato in un marasma di voci che si accavallano, di note che si contraggono, pezzi non lineari, che nell’arco di una ventina di minuti riescono a creare un mondo completamente nuovo e complementare. Le sonorità sono poi arricchite dagli inserti di didgeridoo (antico strumento a fiato ad ancia labiale degli aborigeni) creati ad arte dal maestro australiano dello strumento Martin O Loughlin, ma anche dal piano e dal synth di Federico Sbaiz e dalle voci di Annarita De Conti e Franco Polentarutti.