Se nel 2016 l’Accademia svedese ha assegnato a Bob Dylan il Premio Nobel per letteratura, un motivo ci sarà. A mezzanotte del 27 marzo, il cantautore ha pubblicato sul web, a distanza di 8 anni dall’ultimo brano originale, un nuovo inedito, il cupo Murder Most Foul, della durata di 16 minuti e 54 secondi, che diventa il brano più lungo da lui mai registrato e che, muovendo dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, ripercorre alcuni punti centrali della storia culturale statunitense degli Anni Sessanta e non solo fino a sfociare in una lunga lista di canzoni che il narratore chiede che siano suonate da Wolfman Jack, un noto dj statunitense attivo negli Anni Sessanta e Settanta. Raggiungendo il primo posto in una classifica Billboard, Dylan racconta come la musica possa lenire le pene patite durante un trauma collettivo e come le note di Thelonious Monk o Billy Joel siano riuscite ad alleviare l’angoscia per l’efferato delitto perpetrato ai danni del Presidente e della sua nazione. Quando tutto nel mondo sembra sbagliato, l’espressione poetica di una canzone può essere l’unica cosa ad avere senso realmente. Nelle grigie giornate di quarantena e di emergenza sanitaria, l’unico potente antidoto lo si può trovare solo nei vecchi classici del cinema americano in celluloide.
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Le strade sono deserte? Sullo schermo basta Cary Grant, elegantissimo in un completo grigio sartoriale. Il silenzio è assordante? A casa, Grace Kelly che massaggia le curve a gomito della Grande Corniche al volante di una spider carta da zucchero. Più la Protezione civile snocciola numeri di morti, ricoveri, guariti, nuovi positivi e più sullo schermo della sala da pranzo scorrono i film di Charlie Chaplin, Orson Welles, Billy Wilder, Howard Hawks, George Cukor, Michael Curtiz. Ma anche quelli di Stanley Donen e Gene Kelly, di Alfred Hitchcock, Elia Kazan o William Wyler. Più drammatico è il bilancio e più il bianco e nero si sgrana, il contrasto si rinnova, l’audio scoppietta. Come se tutto il dolore di queste ore possa essere alleviato non tanto dalla musica, come vorrebbe Bob Dylan, quanto dai protagonisti dei classici del grande schermo. Come se accanto a medici e infermieri, virologi e immunologi giocassero un ruolo determinante anche il grande dittatore Adenoid Hynkel, i Rick e Ilsa di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman in quella trama romantica, impegnata e non banale che è “Casablanca”, Charles Foster Kane e Jedediah Leland di Joseph Cotten in “Quarto Potere”, il Norman Bates di Anthony Perkins in Psycho, Marilyn Monroe con Tony Curtis e Jack Lemmon in “A qualcuno piace caldo”, Laurence Olivier e Joan Fontaine in “Rebecca – La prima moglie” e l’aitante Marlon Brando di “Fronte del porto”. Senza dimenticare le “nostre” “Vacanze Romane” o i magnifici ruoli e indimenticabili interpretati da Katherine Hepburn, James Stewart e Bette Davis, Farley Granger e Doris Day.
«Ci sono periodi, nella nostra storia, in cui per guardare avanti bisogna voltarsi», diceva lo scrittore Sebastiano Vassalli nel suo Terre Selvagge del 2014. E forse questo è uno di quei momenti. Voltandoci, riscopriamo il potere curativo delle vecchie pellicole. Più di un ansiolitico, meglio di un barattolo di Nutella quando si è giù. Non ce ne vogliano “Hunters”, “La Casa di Carta” o “Babylon Berlin”. Attualissime, ma legate alla precaria caducità del nostro tempo. Per una volta si rinuncia volentieri ad adrenalinici colpi di scena in favore di un più cauto atterraggio guidato, senza perturbazioni improvvise né impervi vuoti d’aria. Meglio riscoprire un film di cui si conosce quasi tutto, dove gli attori parlano, vestono e si muovono in un’epoca sufficientemente equidistante tanto dal presente quanto dal passato.
È il fascino della verità, della realtà, raccontate nel minimalismo senza sovrastruttura del non colore. In questo viaggio nel tempo, gli anni Sessanta costituiscono le nostre Colonne d’Ercole, oltre le quali è meglio non addentrarsi. Troppo tribolati i Settanta, troppo vicini a noi i decenni successivi. Ha l’effetto di un balsamo riscoprire, per esempio, il fascino epico che avvolge Humphrey Bogart. Quell’aura da uomo che non deve chiedere mai, che ne “Il mistero del falco” gli fa dire: «Una ragionevole dose di pericolo fa bene alla salute», senza farlo sentire ridicolo. O che spinge Lauren Bacall, ormai cotta a puntino ne La Fuga (Delmer Daves, 1947), a confessargli al telefono «Al diavolo i “se”. So che mi ami e questo mi basta». Standing ovation. È rassicurante recuperare anche la faccia tutta stropicciata di Robert Mitchum, stella de Il giorno più lungo, polpettone bellico popolato solo da eroi che pronunciano frasi che solo un eroe può pronunciare. Tipo: «Su questa spiaggia solo due categorie di uomini possono restare: quelli che sono morti e quelli che moriranno!».
E nella lunga reclusione obbligata, l’antidolorifico cinematografico pretende personalissime tappe obbligate. Una di queste è “Viale del Tramonto”, gioiello del 1950, diretto da un Billy Wilder che quell’anno aveva poca voglia di sorridere, in cui Hollywood mostra il suo lato decadente. Il film è quasi l’anello di congiunzione fra il cinema muto, incarnato dalla diva Gloria Swanson, e il nuovo che avanza, che ha la faccia sana e yankee di William Holden. «Le grandi stelle non hanno età», afferma la protagonista. Come darle torto? Oppure Eva contro Eva di Mankiewicz, dove una monumentale Bette Davis interpreta l’attrice Margo Channing che lotta come un leone per non perdere parti, prestigio e soprattutto l’amore. «Che strana la carriera di attrice – dice la protagonista a un certo punto della storia – Si lasciano cadere tante cose per arrivare in cima alla scala. Non si pensa che se ne avrà bisogno quando si vorrà tornare a essere donne».
Un’altra pellicola che scalda come un plaid di cachemire e fa passare tutta la paura è “L’appartamento” (Billy Wilder, 1960), dieci nomination all’Oscar e cinque statuette vinte. Girato da Wilder nel ’60, ha come protagonista un goffo Jack Lemmon che s’innamora di Shirley MacLaine che però ama un altro. Lei soffre, si strugge e tenta il suicidio. Lui la salva. «Il dottore ha detto che ci vogliono quarantott’ore per togliersi dal sangue quella roba», dice Lemmon. «Mi domando quanto ci vuole a togliersi dal sangue qualcuno di cui si è innamorati. Se inventassero una specie di lavanda anche per quello…», risponde MacLaine. Poi c’è quel grande classico di Michael Curtiz che è “Casablanca”. Perché rivederlo? Per sospirare davanti a una delle scene d’addio più commoventi e romantiche della storia del cinema. O ancora, “Accadde” una notte (1934) di Frank Capra, con Clarke Gable e Claudette Colbert, per credere ancora che un incontro fortuito (come quello tra il giornalista e la ricca e viziata ereditiera che si fingono marito e moglie) possa cambiare per sempre il nostro destino.
Sono proprio le commedie americane, materia densa è sterminata, il miglior antidoto contro lo scoramento. A partire dal volto signorile e charmant di Cary Grant, uno che in vita si è sposato cinque volte, ha avuto una liaison con Sophia Loren e ha attraversato quattro decenni di cinema recitando sempre (o quasi) in capolavori. “Arsenico e Vecchi Merletti” e “Susanna!” negli anni Trenta; “Il Sospetto” negli anni Quaranta, “Caccia al Ladro”, “Intrigo Internazionale” e “Operazione Sottoveste” negli anni Cinquanta; “Il Visone sulla pelle” negli anni Sessanta. Sempre impeccabile, inappuntabile. Ironico e seducente. Come in “Caccia al ladro” del 1955 dove Grace Kelly, mica una qualunque, gli fa il filo facendo la preziosa, e lui la liquida dicendo «ho lo stesso interesse per i gioielli di quanto ne ho per i cani di razza, la poesia moderna e le donne che cercano morbose emozioni, ossia nessuno». In “Indiscreto” del 1958, invece, interpreta un diplomatico della Nato che conquista il cuore di Ingrid Bergman, attrice delusa da tonnellate di amori senza lieto fine. In una scena lui aspetta lei per cenare. «Mangia, finché è caldo», dice la Bergman. E lui: «No, ti aspetto». E di nuovo lei: «Mangia, l’educazione rovina le pietanze». Un capolavoro di delicatezza. Di Cary Grant, il collega Burt Reynolds diceva: «Era toccato dagli dei. Quando entrava in una stanza, eri costretto a guardarlo. Piaceva agli uomini come alle donne, e questo è incredibilmente raro». Vero.
E poi c’è Hitchcock, il punto di equilibrio di ogni cosa. Quale occasione migliore per ripassare la sua filmografia? Dai primi film inglesi fino a gioielli come “Gli Uccelli”, “Psycho”, “La finestra sul cortile”, “La donna che visse due volte”, “Il delitto perfetto”. Fuori tutto è precario, qui tutto è perfetto. Attori, sceneggiatura, costumi. Perfino i cattivi sono ineccepibili. Cercare ristoro in un maestro del brivido è un paradosso, eppure funziona: c’è Joan Fontaine che, in “Rebecca, la prima moglie” (su YouTube) sogna di imbottigliare i ricordi come profumi: «Vorrei che non svanissero mai nell’aria, in modo da poter stappare la bottiglia ogni volta che lo volessi e poter far rivivere il passato aspirandola». O Robert Walker che, ne “L’altro uomo” (su YouTube), confessa il suo desiderio di imbrigliare l’energia vitale: «Quella atomica in confronto sembrerà come una bomba carta», spiega al senatore Morton. «Io sto già sviluppando la mia facoltà di vedere a milioni di chilometri, ma c’è di più. Sapete che un giorno sentirò il profumo di un fiore del pianeta Marte?». Ma è ancora una volta Cary Grant, star di “Notorious – L’amante perduta” (su YouTube) a offrirci la lezione finale. Ingrid Bergman è stata avvelenata, ha paura. Ma Grant le fa da angelo custode. «Fingi che non ci sia pericolo e la paura scomparirà», le dice. Già, magari funziona davvero.