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Joachim Cooder va oltre la strada del padre Ry

Giuseppe Attardi di Giuseppe Attardi
Ottobre 19, 2020
in Musica
Tempo di lettura: 4 mins read
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Joachim Cooder va oltre la strada del padre Ry

Dici “figli d’arte” e pensi a innumerevoli talenti finiti sotto lo schiacciasassi dell’aura mitologica del padre. Nancy e Frank Sinatra, Nat “King” e Natalie Cole, Bob e Ziggy Marley, Jakob e Bob Dylan, Sean e John Lennon, Cristiano e Fabrizio De André, Massimo e Domenico Modugno, per citare i più famosi. Solo Jeff Buckley riuscì a superare papà Tim, tragica voce folk. Poi, a 31 anni, è annegato nel Mississippi. Destino o maledizione? Colpa del complesso d’Edipo o del talento che non si trasmette con il dna?

«Se nasci in mezzo alla musica e l’ami, ti appartiene. Che tu abbia successo o no», commenta Joachim Cooder, altro rampollo di sangue blu, figlio del leggendario chitarrista Ry. «Sono un batterista, quindi immagino che Jim Keltner (fido collaboratore del padre, nda) abbia avuto un’enorme influenza su di me», si presenta. «Il modo in cui mio padre sta con le persone e i musicisti mi ha aiutato a plasmare il modo in cui guardo le cose nella musica e nel mondo. Eravamo solo io, mia madre e lui, quindi abbiamo viaggiato con lui in tour quando ero giovane».

Un’infanzia trascorsa in giro per il mondo, mentre il padre andava all’inseguimento dei suoni perduti tra Parigi e il Texas, L’Avana e il Mali. Il debutto a 15 anni nell’album A Meeting by the River che il papà registra insieme con il musicista indiano Vishwa Mohan Bhatt. Poi il tirocinio in altre produzioni paterne e docenti del calibro di John Lee Hooker, fino alla laurea conseguita con la partecipazione alle session per Buena Vista Social Club che portarono il nome di Cooder in tutto il globo.

LEGGI ANCHE: “Born to run”: l’inizio di un mito

Le lezioni familiari e l’ambiente intellettuale nel quale è cresciuto formano il piccolo Indiana Jones, anche lui attratto dai suoni perduti. Non va alla ricerca del successo, come gli altri figli d’arte, ma approfondisce e amplia le proprie conoscenze. Non pubblica immediatamente dischi, ma prosegue negli studi. Che lo portano a frequentare Ali Farka Touré, che lo avvicina alla m’bira, variante di un kalimba, un piccolo piano africano che si suona solo con i pollici, e ad approfondire reminiscenze giovanili. Come quella riguardante Uncle Dave Macon, suonatore di banjo ritenuto progenitore della musica country. «Mio papà suonava spesso il banjo ed era solito cantare alcune di queste canzoni», ricorda. «Da lui appresi che aveva sentito Pete Seeger suonare le canzoni di Uncle Dave e che Seeger era un grande sostenitore della sua musica. Ricordo che da ragazzino ero particolarmente affascinato da una canzone, Morning Blues».

Ed è dopo aver riascoltato quella canzone da adulto, durante un pranzo di famiglia, che a Joachim viene in mente l’idea di unire il banjo di papà Ry alla sua m’bira. «Erano già parecchi anni che suonavo la m’bira elettrica: ci avevo fatto un disco ed è lo strumento che suono in tour», racconta. «C’era qualcosa di molto schematico, forse nella musica suonata con il banjo in generale o nel modo in cui mio papà la suonava, per cui presi la m’bira e semplicemente iniziai a suonare insieme a lui».

«Aveva una vaga aurea ultraterrena», continua. «Pensai: “Voglio suonare queste canzoni in questo modo”. Non sono un suonatore di banjo per cui non mi ci potevo avvicinare, da un punto di vista purista. Iniziai ad ascoltarlo ogni mattina. Mettevo su un intero cofanetto di musica di Uncle Dave e mi mettevo ad ascoltarla insieme a mia figlia. In un certo senso, lei è stato il direttore artistico del progetto. Poi iniziai a cambiare i testi pensando a lei. Quando iniziai questo progetto non sapevo molto dell’origine delle canzoni di Uncle Dave. Ma in seguito mi resi conto che lui era un collezionista o addirittura un curatore delle canzoni che sentiva intorno a sé, come Alan Lomax, riproponendole e reinterpretandole per un nuovo pubblico. Che era quello che stavo facendo con le sue canzoni senza rendermene conto, ri-immaginandole e riscrivendole. In un certo senso, io e lui facevamo la stessa cosa».

Nasce così Over That Road I’m Bound To Go, album pubblicato all’età di 42 anni per la Nonesuch Records. Un titolo che sembra anche una incitazione a se stesso: “Sono destinato ad andare oltre la strada” (tracciata dal padre, aggiungiamo noi). E il risultato promette più che bene. Over That Road I’m Bound To Go non è un album di cover. Joachim rielabora melodie e testi, sposando il folk classico americano con strumenti di altri mondi, come la m’bira elettrica, un contrabbasso e violini, per portare le semplici canzoni di Uncle Dave Macon nel XXI secolo. La m’bira, lo yali tambur (un liuto turco) e il melodioso tono vocale di Joachim su brani come Backwater Blues e Over That Road I’m Bound To Go portano un calore e una modernità straordinari a canzoni popolari datate e stanche.

Il padre di Cooder è presente nell’album, insieme a Rayna Gellert (violino), Juliette Commagere (cori), Sam Gendel (basso), Glenn Patscha (piano e organo a pompa), Amir Yaghmai (tambur yali), Dan Gellert (banjo e violino) e Vieux Farka Touré (chitarra). Sì, è il figlio del leggendario musicista maliano Ali Farka Touré. Il più grande risultato di Over That Road I’m Bound To Go è che, introducendo Farka Touré e strumenti tradizionali africani, affonda le radici profonde del folk americano nella musica africana.

Tags: Ali Farka TouréJoachim CooderM’biraOver That Road I’m Bound To GoRy CooderVieux Farka Touré
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