«Non so quale potrebbe essere il mio futuro. In questo momento non mi sento come se fossi un pianista». Parole sbalorditive se a pronunciarle è Keith Jarrett, uno dei più grandi pianisti al mondo, un artista che a ogni concerto sembrava facesse l’amore con il suo strumento. Parole tremende che rivelano un dramma che Jarrett, cinque mesi dopo aver compiuto 75 anni, ha confessato al New York Times. Non c’entrava nulla il suo carattere solitario e spigoloso nei due anni di assenza dai palcoscenici, ma un ictus a fine febbraio 2018, seguito da un altro a maggio.
«Ero paralizzato», ha detto al New York Times, parlando al telefono da casa sua nel nord-ovest del New Jersey. «Il mio lato sinistro è ancora parzialmente paralizzato. Sono in grado di provare a camminare con un bastone, ma ci è voluto molto tempo, ci è voluto un anno o più. E non mi muovo affatto per questa casa, davvero».
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Jarrett inizialmente non si era reso conto di quanto fosse stato grave il suo primo ictus. Dopo che erano emersi altri sintomi, è stato portato in ospedale, dove si era ripreso abbastanza da essere dimesso. Il secondo ictus, avvenuto a casa, lo ha costretto al ricovero in una struttura di cura. Durante la permanenza lì, da luglio 2018 a maggio scorso, ha usato sporadicamente il pianoforte, suonando qualche contrappunto destrorso. «Stavo cercando di fingere di essere Bach con una mano», ha detto al quotidiano newyorkese. «Ma era solo giocare con qualcosa». Tornato a casa, quando ha cercato di suonare alcuni brani bebop familiari, ha scoperto di averli dimenticati.
«Quando sento la musica per pianoforte a due mani è molto frustrante, in modo fisico», ha aggiunto al New York Times. «Se sento anche Schubert, o qualcosa suonato a bassa voce, mi basta. Perché so che non potrei farlo. E non mi aspetto di tornare come ero prima. Il massimo che mi aspetto di recuperare con la mano sinistra è forse la capacità di tenere una tazza».
Cresciuto ad Allentown, in Pennsylvania, Keith Jarrett è stato un enfant prodige. La leggenda racconta che aveva 3 anni quando una zia gli indicò un ruscello e gli disse di trasformare il suo gorgoglio in musica: la sua prima improvvisazione al pianoforte.
Alla fine degli anni Sessanta cominciò la sua ascesa nel mondo del jazz. Ha registrato decine di dischi e suonato con alcuni dei più grandi jazzisti del Novecento, da Art Blakey a Miles Davis, e con il suo trio insieme al batterista Jack DeJohnette e al contrabbassista Gary Peacock è stato tra i più apprezzati interpreti di standard degli anni Ottanta. Ma ancora oggi la sua fama è legata principalmente ai suoi concerti in cui, per decenni, ha improvvisato dalla prima all’ultima nota, producendo atmosfere e melodie diventate memorabili alla stregua di grandi canzoni pop, come quelle del suo disco più famoso e venduto, il Köln Concert del 1975. O quello alla Scala, per il quale ci vollero due anni di trattativa: l’incontro tra un pianista che non porta mai la giacca, al massimo un gilet, e un teatro d’opera sempre più spaventato dalla profanazione che avrebbe subìto.
Nella musica di Jarrett confluiscono Chopin e il blues, il jazz informale e la poesia post-romantica, un ritmo ostinato o una melodia indiana. E poi una immensa creatività. Ai suoi concerti, si piega sulla tastiera del pianoforte, si contorce, ondeggia, si alza dallo sgabello, batte i piedi sul legno del palcoscenico, si agita, cerca di accompagnare le note con il corpo, canticchia la melodia un attimo prima di eseguirla, ansima.
Non è un tipo facile Jarrett. Tutt’altro. Basta un colpo di tosse per fargli interrompere una esibizione. Una sera d’estate, era il 23 giugno 1988, al Teatro della Verdura di Palermo, ha chiuso all’improvviso il coperchio del pianoforte e se n’è andato. Uno spettatore aveva fischiato. Da quella sera palermitana l’elenco delle sue precondizioni fa sudare freddo i direttori delle sale da concerto. Vietata la presenza dei fotografi, sia al concerto sia alle prove, «perché Keith non vuole essere distratto dagli scatti, e nemmeno dai giornalisti». Gli aneddoti sulle sue nevrosi si sprecano. Una volta a New York, innervosito per la poca attenzione di un paio di spettatori, li apostrofò così: «Vi comunico che non state assistendo a un concerto, ma a un evento». C’è chi dice siano le bizze di un artista viziato. Lui dice: «Io rischio. Dunque, se non è tutto perfetto, se non riesco a concentrarmi, non suono».
«Se non è tutto perfetto»… E come potrebbe essere adesso perfetto un concerto di Keith Jarrett se non ha più la possibilità di usare la mano sinistra? Sarà difficile poterlo vedere nuovamente far l’amore con il piano su un palco.