La pandemia incalza e il governo accelera per tenere sotto controllo i contagi e sgravare ospedali e dipartimenti di Sanità pubblica. Per decongestionare il sistema di testing, presto i test rapidi potrebbero entrare negli studi dei medici di base e in farmacia. Nel corso della riunione con le Regioni è stato il ministro della Salute Roberto Speranza ad annunciare l’avvio di una fase di sperimentazione ad hoc come già avvenuta per la scuola. È una vera e propria corsa contro il tempo quella di arrivare a individuare rapidamente nuovi contagi, per poter procedere all’isolamento evitando la propagazione incontrollata del coronavirus.
In linea generale c’è accordo con le regioni sulla semplificazione delle procedure di tracciamento. Regioni, medici di famiglia e sindacati sono convocati lunedì per un accordo sui test rapidi in carico ai medici di medicina generale. La nuova normativa, stando alle indiscrezioni, prevede l’adesione volontaria dei camici bianchi e una possibile aggiunta contrattuale all’accordo collettivo di lavoro dei medici di base. «Già in alcune regioni in farmacia si fanno i test sierologici. Proviamo a fare una sperimentazione, come sta avvenendo a Trento, per effettuare gli antigenici», ha detto il ministro alla Salute, Roberto Speranza.
L’atto di indirizzo indica che questa attività sia limitata al periodo dell’epidemia influenzale sul territorio nazionale in modo da favorire la diagnosi differenziale tra le due patologie. Prevede inoltre che ad essere coinvolti siano i medici di assistenza primaria e i pediatri di libera scelta «per evitare che il rafforzamento di tali attività gravi esclusivamente sui Dipartimenti di Sanità Pubblica». Il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, ha spiegato che «con un’ordinanza della Protezione civile si creerà un contingente per potenziare le reti sanitarie interne alle Asl e rafforzare le operazioni di tracciamento». In pratica duemila operatori che verranno individuati con un bando: 1.500 per effettuare tamponi, test e tracciamento, altri 500 lavoreranno sulla richiesta di informazioni e sulle procedure da seguire.
Ulteriori progressi in termini diagnostici si spera arrivino anche da tecnologie in fase di studio o anche a livello più avanzato. La saliva ad esempio è un campione diagnostico ideale per eseguire la ricerca del virus, e può essere utilizzata con sistemi commerciali già disponibili, veloci e sensibili. È quanto emerge da una ricerca appena pubblicata sulla rivista Viruses, realizzata all’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma (InmiI) in collaborazione con l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, lo University College di Londra e la società biomedicale DiaSorin. «I risultati – spiega l’Inmi in una nota – dimostrano che la saliva è un campione altrettanto valido rispetto al tampone naso-faringeo ed al lavaggio bronco-alveolare attualmente utilizzati come gold standard per il rilevamento del SARS-CoV-2». Il campione salivare, inoltre «è meno invasivo e più facile da raccogliere rispetto al tampone naso-faringeo e, a maggior ragione, rispetto al lavaggio bronco-alveolare». Il team di ricercatori ha analizzato 337 campioni salivari di 164 pazienti ricoverati presso l’Inmi, mettendoli a confronto con altrettanti tamponi naso-faringei e riscontrando un elevatissimo grado di concordanza dei risultati.