Lunedì 8 dicembre 1980. È sera quando in America radio e televisioni sospendono le trasmissioni per annunciare: «John Lennon è stato assassinato fuori dal Dakota Building di New York». Alle ore 22.50 di quel lunedì l’ex beatle era stato ucciso mentre rientrava a casa: sulla 72esima strada, angolo Central Park West. A sparargli il giovane Mark David Chapman, un fanatico religioso che pochi istanti prima si era fatto autografare una copia di Double Fantasy e che si definisce un fan deluso di Lennon e dei Beatles. Si spegne la voce di una generazione. Per molti, quel giorno, la gioventù finisce di colpo. Si chiude un’era. I sogni si spezzano per sempre.
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Al di là delle celebrazioni, quello che conta è che tuttora non risulta facile trovare una collocazione per la figura di Lennon, nemico pubblico per la Cia come per l’Fbi, temuto come terrorista sinistrorso per le sue prese di posizione e le sue frequentazioni (Abbie Hoffman, Jerry Rubin, Angela Davis), scomodo, appassionato, geniale artista di quella cultura che è l’arte del rock, la più giovane, l’ultima in ordine di tempo tra quelle che il secolo scorso ci ha proposto. E se tutto il mondo del rock è così disponibile a ricordarlo è da un lato perché si ha la inquietante sensazione che Lennon, in un certo senso, abbia pagato un po’ per tutti, in quella estrema e delirante simbologia del fan che uccide il suo idolo, e poi perché a nessuno sfugge che tutti, ma proprio tutti quelli che oggi fanno musica pop, gli sono in qualche modo debitori.
Se quel proiettile lo avesse risparmiato, John Lennon oggi avrebbe 80 anni, compiuti lo scorso 9 ottobre. Probabilmente soddisfatto della sua carriera: «Il mio più grande piacere è scrivere canzoni che durino più di qualche anno. Che chiunque possa cantare, e che vivranno dopo di me. Questo è quello che mi dà la carica». Sono le sue parole riportate sulla copertina della raccolta Gimme Some truth. E non si può dire che non gli sia riuscito, almeno fino a quando quel sogno non è stato cancellato da una manciata di proiettili. Il mondo sarebbe certamente più brutto se non ci fossero state le canzoni dei Beatles, e sarebbe ancora più brutto se non ci fosse Imagine.
John Lennon cantava la trasformazione del presente e quindi aveva una visione del futuro, aveva la sensazione che un’altra dimensione era lì a portata di mano appena al di là di un verso di Power To The People. Canzoni attualissime, come quella che dà il titolo alla citata compilation, pubblicata nell’era Nixon, ma valida ancora oggi quando la verità non si sa più dove sia.
Lennon è sempre stato aperto a qualsiasi tipo di novità: ha provato l’LSD, la meditazione e la spiritualità orientale. E poi il network artistico Fluxus e l’avanguardia con Yoko Ono e infine la protesta, per poi ritornare al rock’n’roll e a esplorare i suoi danni emotivi attraverso la famosa terapia dell’“Urlo primordiale” dello psichiatra Arthur Janov in brani grezzi e potenti come Mother. D’altronde, se i Rolling Stones sono stati sempre legati al blues, i Beatles erano più pop e più sperimentali allo stesso tempo: sembra un ossimoro ma è così, nessuno ha mai fatto opere come I Am A Walrus o Strawberry Fields.
Lennon fu sostanzialmente un artista pop, forse il più grande che ci sia mai stato, e lui stesso non volle mai allontanarsi del tutto da questo solco. Ma riuscì a dare alla figura dell’artista pop il massimo delle possibilità, l’accezione più ampia che si possa immaginare. Se Elvis Presley rappresentò l’esplosione generazionale di incontaminata innocenza, di erotismo istintivo, Lennon fu il profeta di una nuova generazione di rocker che in qualche modo erano anche degli intellettuali, consapevoli di realizzare un inedito, altissimo livello creativo, consapevoli del loro ruolo e del potere di trasformazione che poteva avere la musica. Questo Lennon l’aveva imparato da Dylan, ma arrivò molto oltre. Basterebbe quello che ha fatto all’interno dei Beatles; e oggi tra l’altro è possibilissimo sapere nei dettagli che cosa esattamente va attribuito a lui, anche dietro l’onnipresente marchio di fabbrica Lennon-McCartney, quasi da comporre un percorso nel percorso che va da Help a Norwegian Wood, da Strawberry Fields Forever a Lucy In The Sky With Diamonds, da Dear Prudence ad Across The Universe.
Lennon fu l’artefice principale di quella irresistibile, ancora oggi fragorosa, ascesa, ma anche i dieci anni passati da solo sono estremamente significativi, forse i più affascinanti da un punto di vista più generale. Furono gli anni in cui Lennon visse per intero tutte le contraddizioni di un artista pop che aveva acquisito un immenso, incalcolabile potere di comunicazione.
Lennon guardava sempre avanti. Nella sua ultima intervista rilasciata prima della morte diceva: «Continuerò a parlare dei Beatles per sempre. Ne discuterò dal punto di vista intellettuale, di quel che significano e di quel che non significano. Questo non mi disturba. Però mi disturba che ci sia chi crede che li possiamo ricreare apposta per loro, per i ragazzini che continuano a scrivermi dicendo: “Ho solo 14 anni e me li sono persi”. Mi sembra patetico. Io dico lascia perdere. Ascolta i dischi dei Beatles, ma vatti a cercare i Queen, i Clash o chiunque ci sia adesso».
Oggi Lennon avrebbe consigliato Billie Eilish, Yungblud o qualche rapper, ma avrebbe potuto continuare a urlare a Trump: «Ne ho avuto abbastanza di leggere cose/ di politici nevrotici, psicopatici, dalla testa di porco/ tutto quello che voglio è la verità/ datemi semplicemente un po’ di verità». Ragazzo punk prima di Sid Vicious, rapper prima del rap, «molto probabilmente, si sarebbe unito ai rapper, immergendosi contemporaneamente in Internet», ha risposto la vedova Yoko Ono.
«Si sarebbe riavvicinato a Paul, ma non certo per lavorarci, e sicuramente avrebbe assistito Yoko, riconoscendole il merito di avergli ispirato il testo di Imagine», commenta Gregorio Scuto, fan siciliano e alfiere delle musiche dei Fab Four. «E avrebbe continuato a comporre e incidere, da casa, donando il risultato ad associazioni benefiche: pace, bambini, e a tutti gli ultimi del mondo». Forse, come a Dylan, anche a lui avrebbero dato un Premio Nobel, quello per la pace piuttosto che per la letteratura.
Oggi Lennon apparirebbe un po’ come un intruso e il suo esser schivo e mai invadente avrebbe fatto a cazzotti con questo mondo. Sarebbe risultato ancora più scomodo di quando era in vita. Da kennedyano si sarebbe trasformato in sostenitore prima di Obama e adesso di Biden e da persona capace di unire le persone avrebbe contrastato sovranismi, razzismi e xenofobia. Forse avrebbe anche scritto libri o dipinto tele, sicuramente però avrebbe evitato di andare in giro come monumento di sé stesso, alla stregua di Mick Jagger & compagni, o dell’ex compagno di avventura e suo alter ego Paul McCartney. L’unica certezza è che non ci sarebbe mai stata una reunion dei Beatles.