Neil Young vende la metà dei diritti d’autore e delle royalties di circa 1.180 canzoni incassando 50 milioni di dollari, ma altre fonti arrivano a 100. Bob Dylan lo aveva preceduto di alcune settimane cedendo i diritti di pubblicazione di più di seicento canzoni per una cifra che si aggira tra i 300 ed i 400 milioni di dollari. Ancor prima c’erano stati Stevie Nicks, che in cambio di 100 milioni di dollari ha venduto l’80% della sua musica, i Fleetwood Mac, Blondie, Barry Manilow e molti altri ancora.
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La pandemia ha cambiato il modo di vedere le cose. Le vendite di dischi sono diminuite, lo streaming non compensa le perdite, e l’industria dei concerti è in stallo. Così, a 60 o 70 anni, molti artisti pensano al momento in cui non avranno più l’energia o la salute per ripartire in tour. Vendono i loro diritti per assicurarsi un futuro tranquillo. «Non posso lavorare, e lo streaming mi ha rubato i soldi dei miei dischi», si lamenta su Twitter David Crosby, uno dei più celebri artisti rock degli anni Sessanta e Settanta. «Farò anch’io come Dylan. Ho una famiglia e un mutuo, e devo occuparmene perciò è la mia unica opzione. Penso che anche gli altri siano nella stessa situazione».
Vendere il proprio catalogo musicale significa vendere i diritti d’autore sulle proprie canzoni e quindi i proventi che ne derivano, da quelli delle singole riproduzioni in streaming a quelli degli utilizzi nei film, negli spot e nelle serie tv, passando per le cover suonate dal vivo, le trasmissioni in radio. Possedere un catalogo significa anche poter pubblicare nuove edizioni dei dischi, o raccolte. Attraverso gli enti che raccolgono i proventi nei singoli Paesi – in Italia prevalentemente la Siae – le royalties rappresentano la principale fonte di guadagno per gli artisti.
Le canzoni di successo restano «affidabili nei loro flussi di reddito», spiega Merck Mercuriadis al quotidiano britannico The Guardian. Figlio di un calciatore greco, canadese di nascita, 56 anni, Mercuriadis è un veterano della musica. Vive a Londra, dove ha trascorso quasi quaranta anni operando nell’industria musicale come manager di artisti di successo a livello mondiale, come Elton John, Guns N’Roses, Morrissey, Iron Maiden e Beyoncé. Adesso ha deciso di applicare gli insegnamenti di Sir Richard Branson, il bizzarro e geniale patron della Virgin, dove iniziò a lavorare, fondando la Hipgnosis Songs Fund Limited, una società quotata a Londra che compra canzoni a peso d’oro, offrendo agli investitori la possibilità di guadagnare con i diritti d’autore generati da queste migliaia di brani.
Lanciata due anni fa, la compagnia ha speso circa 700 milioni di sterline, accumulando i diritti di oltre 13mila canzoni. «La musica vale quanto l’oro e il petrolio, forse anche di più», spiega la “mente” della Hipgnosis dopo aver acquistato hit come Heart of Gold, Rockin’ in the Free World, Harvest e Cinnamon girl. «Perché non è correlata a ciò che sta accadendo sul mercato. La musica viene sempre consumata. L’oro è qualcosa che solo pochi possono acquistare, mentre un abbonamento mensile da 10 sterline a Spotify o ad Apple è qualcosa che praticamente tutti possono fare. E, come è stato dimostrato durante la pandemia, gli abbonamenti sono aumentati perché le persone cercavano conforto».
Gli abbonamenti sono effettivamente in crescita. Spotify ha registrato un incremento del 29% degli utenti mensili attivi, e gli abbonati paganti – la linfa vitale dell’azienda – sono il 27% in più rispetto al 2019.
Una diapositiva che Hipgnosis lancia per invogliare i potenziali investitori è intitolata “Livin’ on a Prayer case study” e traccia la crescita dei ricavi del successo di Bon Jovi. Dal 2013, l’anno successivo al lancio di Spotify negli Stati Uniti, i ricavi annuali della canzone Livin’ on a Prayer sono aumentati del 153%.
Gli investitori sembrano apprezzare. Hipgnosis ha raccolto più di 860 milioni di sterline dalla fluttuazione nel 2018. E nel registro degli azionisti si trovano alcuni dei più grandi e noti gestori di fondi, tra cui Investec, Schroders, Aviva e Ccla, il fondo d’investimento della Chiesa Anglicana, di cui la regina Elisabetta II è governatore e l’arcivescovo di Canterbury è primate.
L’idea di acquistare il celebre successo di un artista non è nuova. Negli anni Novanta ai fan fu offerta la possibilità di investire nella popolarità di David Bowie acquistando “Bowie bond”. Si trattava di obbligazioni a 10 anni garantite dai futuri guadagni di royalty di Bowie da canzoni pubblicate prima del 1993, con un interessante tasso di interesse del 7,9%. Prudential Insurance acquistò l’intera emissione per 55 milioni di dollari. Bowie fu seguito da altri artisti, tra cui Iron Maiden e James Brown. Quando però il mercato dei dischi cominciò a dare segnali di crisi, i proprietari dei “Bowie bond” videro svuotarsi il loro serbatoio di investimenti. Altro famoso investimento nell’archivio di un artista fu nel 1985 l’acquisto di 250 canzoni di Lennon-McCartney da parte di Michael Jackson come parte di un accordo da 47,5 milioni di dollari.
Con lo streaming, che dà nuova vita al settore dopo oltre un decennio di vendite di cd, e con la pirateria in calo, la musica ha ripreso il suo fascino. L’anno scorso le vendite globali di musica sono aumentate per il quinto anno consecutivo, a 20,2 miliardi di dollari, guidate dalla crescita del 23% in streaming. E canzoni come Livin’ on a Prayer, Heart of Glass, Copacabana, Single Ladies, Sweet Dreams sono diventate più preziose dell’oro. Parola di Merck Mercuriadis: «Nel 2020 abbiamo guadagnato 85 milioni di euro, una media di 6.300 dollari ogni titolo».