È una delle prime giornate d’inverno di questo nuovo anno. Piovosa, a tratti malinconica. Invece che annunciare una speranza di rinascita sembra riportarci indietro alle ombre dell’anno appena trascorso. Come spesso mi accade di fare in questi momenti, mi rifugio nei libri; così oggi leggo Minimo umano di Stelvio Di Spigno, una raccolta di liriche che ho comprato alcuni mesi fa in via dei Cerretani a Firenze.
La raccolta si apre con la sezione Preludi, con una lirica dedicata ad Alfred Schnittke. Già da questi primi versi si intuisce che il respiro che attraversa il libro è alto, ed è caratterizzato da ampie aperture strofiche, con versi lunghi, poco più della misura del tradizionale endecasillabo. Il ritmo è tutto basato su una musica interiore, lo stile è limpido con un dominio sapiente dell’immagine poetica.
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Musica e movimento si fondono, mettono in moto qualcosa, quasi una prospettiva profetica di salvezza, una voce, un soffio vitale che consenta un ritorno nell’umano, nel corpo, un nuovo accordo con il tutto. Evocano immagini indefinite, un paesaggio (Variante lombarda) di laghi oblunghi, che viene più dall’occhio della mente che dallo sguardo, che si fa simbolo di un ripiegamento dell’io su stesso, di un’analisi interiore che ferma sulla pagina un momento di stasi, di debolezza di pensiero e fiacchezza spirituale (p. 10):
[…] Riflettono soltanto la mancanza
che il pensiero ha di se stesso,
come una debolezza o sfinimento,
e nessuna collina viene avanti,
è tutto un silenzio di naviganti
che hanno perduto la via dell’equatore.
Nella seconda sezione (Versi morali), il poeta fa i conti con il suo destino. Sembra che in alcuni passaggi racconti, ma non è così. Il tessuto narrativo piano, regolare che anima i testi mira invece a tenere insieme il tutto, a mettere in risalto qua e là delle immagini, delle analogie per rendere attraverso un uso più audace della parola anche l’indicibile. I versi di questa sezione sono più brevi e drammatici (Cronologie, p. 23), riflettono un malessere autentico, spirituale e fisico, da cui traggono anche la loro energia. Il poeta scava nell’umano della vita fino a toccarne la carne, i nervi scoperti. Compie una catabasi nel proprio dolore, e forse così facendo riporta da questo percorso una luce dimenticata, che lo spinge a cercare la via d’uscita (Futura, Domenica pomeriggio) nel desiderio della partenza per un ‘sud assoluto’, o nella consapevolezza che per non colare a picco deve ritrovare qualcosa di perduto, un luogo in cui non è mai stato. La presenza nell’umano implica il senso della fine, anche per il suo corpo, che inevitabilmente invecchia. Da qui il desiderio/speranza, (Elegie finali), che anche lui, in quella sorta di partenza che è la morte, possa rinascere e ‘risorgere’ (p.38):
Ma forse anche tu tornerai nuovo
quando l’anima si staccherà da te
e andrà lì dove tutto si crea,
tu che non vuoi morire,
col tuo vestito a festa
carico di rammendi,
brillerai per le strade.
Anche le sezioni successive Terra e cielo, Il mondo estremo, La vita facile, Congedi, sono animate da lacerazioni, perdite, dalla consapevolezza che il corpo marcisce prima dell’anima, ma allo stesso tempo anche da sogni, ‘allunaggi della mente’ di un’altra vita, di ‘mondi che non possono morire’. C’è il respiro umano, dolente, minimo, ma anche il desiderio di qualcosa di altro, della ‘speranza’ di un altrove, di un giorno (Quel giorno), in cui sarà possibile ritrovarsi con tutti quelli che amiamo e abbiamo amato (p.62):
Ci sarà, da lontano, una foresta.
Poi, più vicino, un addio. Un sobborgo
in festa, una tavola con tutti
gli amati, vivi e morti. Le stoviglie
sono pronte sin d’ora. Le lacrime,
i calici, il vino del congedo, le stanze
penetrate da nebulose e meteoriti
saranno lì al momento
e per l’ultima volta. […]
Speranza tutta umana, che anima, credo, non solo questo nuovo libro del poeta, ma anche tutti noi, e che splende un po’ come un auspicio di buon augurio in un inizio anno difficile, purtroppo segnato da altre oscure ombre.