Questo Festival s’ha da fare. E nelle date prestabilite dal 2 al 6 marzo. Lo dicono i Bravi della Rai – i vacillanti amministratore delegato Salini e direttore della prima rete Coletta – perché, in tempi di vacche magre, non si possono perdere 37,4 milioni di euro (per un guadagno di quasi 20 milioni netti), tanto fu l’anno scorso l’introito pubblicitario. La Rai ha chiuso in rosso il 2020 e chiuderà in rosso il 2021 a causa del calo della pubblicità. Uno slittamento (ad aprile o ancor più in là, a maggio) spingerebbe le aziende a chiedere un sostanzioso sconto per gli spot e alla fine il conto economico della pubblicità sarebbe più basso rispetto alle attese.
Questo Festival s’ha da fare. Ora e con il pubblico (anche se ridotto). Lo vuole Amadeus per appagare la sua vanità, lo cerca Fiorello che non potrebbe fare Fiorello senza risate di ritorno, senza nessuno in prima fila a cui rivolgersi, lo desiderano i cantanti in gara per ritrovare l’adrenalina della quale sono in astinenza a causa dell’assenza di “live”. Scartata l’ipotesi della nave “bolla”, sarà un pubblico composto da figuranti, come accade in alcuni programmi Mediaset e Sky. Solo che Sanremo (lo dice la parola stessa: Festival), non è semplicemente un programma tv come “C’è posta per te”, “Amici” o “Tu si que vales”.
Questo Festival s’ha dare. Ora e con il pubblico (anche se ridotto) e con l’orchestra al completo. Perché non è gradita l’esibizione dal vivo soltanto dei cantanti sulla base orchestrale registrata. Meglio intasare gli angusti e tortuosi spazi dell’Ariston fra tecnici, orchestrali, musicisti, accompagnatori, truccatori, parrucchieri. Altro che assembramento. Tutti insieme, stretti stretti, al chiuso, per una maratona di quattro ore di diretta tv, visto che nelle difficoltà il lungimirante Amadeus si è concesso il lusso di ampliare la lista dei cantanti in gara: 26 Big più 8 Nuove Proposte. Ai quali bisogna aggiungere ospiti normali e super.
Questo Festival s’ha da fare. Ora. Con il pubblico (anche se ridotto), con l’orchestra al completo e con la sala stampa (anche se ridottissima). Perché non può avere senso un Sanremo che non fa rumore, per dirla con il vincitore dell’anno scorso Diodato. E perché il vanitoso Amadeus non può rinunciare alla passerella trionfale del giorno dopo per festeggiare i record d’ascolti. Una sala stampa decimata: dai 1.271 inviati dello scorso anno ai 100/80 di cui si parla oggi. Formata magari in base al Pil, come vuole la neoassessora lombarda Letizia Moratti per la distribuzione dei vaccini nelle regioni.
Questo Festival s’ha dare. E ora. Perché durante il lockdown, con la gente costretta a non uscire di casa a causa del coprifuoco, favorito dalle zone rosse o da una terza ondata, potrebbe battere i record d’ascolto di tutti i tempi. O comunque annichilire lo share delle dirette del premier Conte, lo scorso anno assurto a “re Mida” dell’Auditel.
Questo Festival s’ha dare. Perché noi italiani siamo migliori degli americani, che hanno rinviato la notte degli Oscar al 25 aprile ed i Grammy Awards al 14 marzo. Più bravi dei francesi che hanno fatto slittare a giugno o luglio il Festival di Cannes.
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Questo Festival s’ha da fare. Perché deve diventare il simbolo della rinascita, è il mantra di Amadeus e dei Bravi. Ma l’apertura dell’Ariston al pubblico non sarebbe invece uno schiaffo a tutti quei teatri e locali che stanno scontando al buio il lockdown e che hanno chiuso anche loro in rosso il bilancio 2020 e, probabilmente, replicheranno nel 2021? Un Sanremo ridotto non sarebbe una beffa per una città che aspetta la settimana festivaliera come una manna dal cielo? E un Festival che dovrebbe riunire le famiglie davanti al televisore non rischia in queste modalità di trasformarsi in un atto di arroganza che offende il Paese? «Sanremo non deve godere di extra-territorialità», ha protestato Enzo Mazza, ceo di Fimi, la federazione che riunisce le quattro multinazionali del disco (Universal, Sony, Warner e Bmg) e che rappresenta circa la metà degli artisti in gara. «Il resto del Paese non solo capirebbe, ma rimarrebbe negativamente colpito se venissero concesse deroghe solo per la necessità di accontentare esigenze economiche della Rai e del Comune di Sanremo».
Questo Festival s’ha da fare. Suona come un atto di arroganza, nel puro stile dei Bravi. Una nota stonata. Perché non ci sarà mai una giustificazione sufficiente a smentire motivazioni prettamente e tristemente economiche.
Questo Festival s’ha da fare. Perché l’Italia va rassicurata, vuole trovare la normalità. Perché Sanremo è lo specchio del Paese. Un Paese che, dopo un anno, non ha ancora capito che bisogna indossare la mascherina, lavarsi le mani spesso, rispettare il distanziamento ed evitare gli assembramenti. Un Paese che, fregandosene delle raccomandazioni, gioca d’azzardo con regole e contagi. Un Paese che l’indomani corre a farsi il tampone, spergiurando di aver rispettato tutte le regole.