Chi è Marcello Murru? Un cantautore? Un cantattore? Un poeta? Chi lo sa? Il caso Murru riesplode ogni dieci anni, sempre più sorprendente, sempre più misterioso, sempre più deflagrante. Marcello Murru vive tra parentesi, rare apparizioni. Personaggio di culto, introverso, lupo solitario, amato da critici, sconosciuto al grande pubblico, è una delle voci più alte della musica d’autore italiana. Vent’anni fa pensava che il tempo a sua disposizione fosse scaduto, che la vita non gli avrebbe regalato altri giorni, altre canzoni, altri dischi. Invece, dopo un delicato intervento di trapianto, Marcello Murru, il sardo di Testaccio, ha dato il meglio di sé. Prima con Arbatax (2002), l’album dedicato al suo paese, poi Bonora (2004) e La mia vita galleggia su un petalo di giglio (2010), ora con Diavoli storti, straordinario album in cui racconta il tempo in cui viviamo in una atmosfera cupa alla Blade Runner, sotto una pioggia che sembra non finire mai, descrivendo momenti di vita personale che assumono un valore universale. Canta e recita, recita e canta, come la prima volta che approdò nella capitale per inseguire il suo sogno d’artista.
Eravamo alla metà degli anni Settanta, quando Marcello Murru lasciò Arbatax per andare a studiare scienze politiche all’Università di Roma. «Vivevo al Testaccio in un appartamento con altri sei studenti sardi», ricostruisce. «Per guadagnare qualcosa davo lezioni d’italiano e fra i miei allievi c’era una ragazza tedesca che faceva l’attrice. Un giorno mi chiese di accompagnarla a un provino per uno spettacolo di Mario Ricci su Majakovski».
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«Erano gli anni dell’avanguardia teatrale, ma io non conoscevo quel mondo», continua. «Mentre ero lì, si avvicinò un signore e mi chiese se io fossi lì per il provino. Risposi che stavo semplicemente accompagnando una mia amica. “No, m’interessa lei”, replicò. Era il regista. Mi prese, mi portò nel backstage e, rivolto alla compagnia, mi presentò: “Ecco il mio Majakovski!”. All’inizio feci un po’ di resistenza, quando mi proposero anche una paga mi dissi: “Perché no”». Fu un successo. Alla prima c’erano anche Fellini e Antonioni. «Proprio quando avevo superato il mio primo esame universitario con il professore Aldo Moro, si aprì una nuova strada».
Benigni non aveva ancora debuttato all’Alberichino col suo Berlinguer ti voglio bene, quando Memé Perlini chiamò Murru per una parte nel film Grand Hotel des Palmes, che andò anche a Cannes. «Con Ricci feci anche Ajace, poi mi iscrissi a un corso di formazione con Vittorio Gassman che stava preparando la sua Bottega. È stato uno degli incontri più belli della mia vita», si emoziona ancora.
Le strade si separarono: Gassman avrebbe aperto la sua Bottega a Firenze, mentre per il sardo del Testaccio il destino stava preparando un’altra sorpresa. «Al termine dello spettacolo teatrale su Artemisia Gentileschi, nel quale recitavo e a un certo punto cantavo un piccolo fraseggio di quaranta secondi, una sorta di lamento, mi venne a trovare un signore per complimentarsi. “Sono rimasto meravigliato dalla sua voce, perché non ci rivediamo?” mi disse porgendomi il bigliettino da visita. C’era scritto il nome di Vincenzo Micocci, che scoprì essere il produttore di Francesco De Gregori, Antonello Venditti e Rino Gaetano».
Si aprivano le porte della Rca, etichetta discografica italiana che in quegli anni era una fucina di talenti. «Al provino mi presentai con un brano di Van Morrison, artista che adoravo. Ma l’unica volta che avevo provato a cantare era stato da ragazzino in un gruppo». Fu mandato a seguire una scuola che aveva come insegnanti Lucio Dalla, Franco Battiato ed Ennio Morricone. Alla fine, Marcello Murru venne messo sotto contratto e gli fu confezionata una apparizione televisiva con il progetto Mondorhama, un trio elettro-pop, nel quale avrebbe avuto come compagni di avventura il regista e musicista Varo Venturi e la cantante Liliana Richter. Con loro ebbe una sbandata glamour che lo condusse al Festival di Sanremo nel 1984 e poi a Londra. Durò poco. «Sanremo mi spaventò, fui io a fuggire. Non ho dimestichezza con le paillettes» confessa. «Io sono affascinato dalla marginalità».
All’asse Sanremo-Londra preferì quello Testaccio-Arbatax. Nel quartiere romano aveva la sua tana d’artista, in Sardegna la casa dove crea e alleva le sue canzoni, che poi, senza fretta, senza ansie, come il naufrago che getta in mare il messaggio nella bottiglia, le consegna all’Italia distratta.
Sguardo fiero, come quello dei sardi, testa rasata, Murru riesce a fare poesia anche giocando sul suo nome: «Ho un nome curvo sul dolore, curvo sugli errori, curvo sul cuore». Poetico ma non enfatico, interprete e non solo cantante. La sua voce roca e amara, marinata nell’alcol e nel fumo, ricorda altri grandi irregolari come Tom Waits, Leonard Cohen e Paolo Conte. È un artista alieno da ogni logica di mercato. È un sognatore. E “i sognatori in quest’epoca non hanno vita facile”, canta in Digitale analogico.
Diavoli storti è un viaggio nella vita, dai ricordi dell’infanzia ai problemi della vecchiaia, dai momenti di gioia a quelli drammatici. «Diavoli storti siamo un po’ tutti», spiega. «Nella mia vita, come in quella di tanti altri uomini e donne, è accaduto di tutto». Marcello Murru ha dovuto confrontarsi con la malattia, che lo ha trascinato nel buio, nella solitudine e che non gli ha concesso di avere una continuità nella sua attività artistica.
Diavoli storti è un album che ha un «abito di nostalgia, una propensione per la notte e per i suoi fantasmi alcolici». Cinico, sarcastico e neorealistico, racconta la deriva dei nostri tempi, che hanno smarrito i grandi sogni, che hanno trasformato i sentimenti veri in ipocrita esibizione, compreso il dolore. Persino la morte, come nella cruda iperbole di Lungo un cammino di numeri: “… Sembra che ormai per morire / ti devi filmare / e se non sei fotogenico / ormai non si muore. / O che sia fotogenico / almeno il dolore. / Tra un po’ potrai sceglierti / una location per morire …”. E in Vertigini aggiunge: “… e so pure che gli ultimi arriveranno primi, ma non sapranno che farsene / che vinti e vincitori calzano ai piedi tutti la stessa marca di scarpe”.
«Mi porto sempre dietro il ricordo di quando con i miei genitori andavamo a vedere le gare di poeti in piazza», racconta pacatamente Murru. «A quei tempi non c’erano i gruppi che suonavano alle feste in piazza. Ci portavamo le sedie da casa per assistere allo spettacolo. I poeti si alzavano e cantavano raccontando un fatto che era avvenuto. E tutti cercavano di interpretarlo a modo loro. Ecco, io ho voluto essere voce narrante e cantante, come quei poeti».
La Sardegna nei ricordi come in Liberos, cantata in dialetto: «Era il mio Far West», sorride. «Sono nato quando la Sardegna era sinonimo di banditismo, di rapimenti. Sui muri di Arbatax campeggiavano le taglie dei banditi, come nei film western. Non c’era cinema e la televisione arrivò più tardi, come tante cose in Sardegna arrivano tardi. Il mio treno per Yuma era quello che partiva dalla stazioncina di Arbatax e andava lentissimo, fischiando, fino a Cagliari».
L’Isola nel sangue, nella solitudine che fa spesso capolino nei testi: «Nel mio carattere, nella solitudine c’è molta Sardegna», ammette. «Sin da bambino sono stato solitario, anche se già canticchiavo. È un carattere che non aiuta, i solitari fanno paura».
Diavoli storti esce per l’etichetta Rea Edizioni Musicali/Concerto Music, «che è quella di Paolo Conte», l’altro incontro più emozionante della sua vita. «Ci siamo imbattuti cinque anni fa a un convegno. È stato lui a volermi conoscere e, poi, mi ha invitato al suo concerto a Roma. Siamo diventati amici e, quando c’è l’occasione, ci incontriamo per parlare di musica e di libri. Insieme a Leonard Cohen e Tom Waits, Paolo Conte fa parte dei grandi amori della mia vita». E non nasconde «una piccola forma di orgoglio» quando lo paragonano all’Avvocato di Asti.