«Nichilista, torinese e disoccupato, perché dire rapper fa subito bimbominkia e dire cantautore fa subito festa dell’Unità». Si presenta così Guglielmo Bruno, in arte Willie Peyote, su Instagram. Cinque album alle spalle, tanti concerti, punto di equilibrio tra il rap, la canzone d’autore, il teatro canzone di Gaber e le battaglie civili di Amnesty, come si può ascoltare nella versione aggiornata de Il bombarolo di De André («l’ho trasformato in un imprenditore fallito e suicida, uno deluso dal populismo») o in album come Il manuale del giovane nichilista, Educazione Sabauda, Iodegradabile, nei quali mescola intelligenza, cinismo, provocazione, denuncia sociale. E ironia, a partire dal suo nome d’arte che unisce il personaggio dei cartoons Willy il coyote con il peyote, un fungo allucinogeno.
Spunto di partenza della canzone Mai dire mai (La locura), con cui è in gara al Festival di Sanremo, è un geniale monologo della serie tv Boris in cui Valerio Aprea dice: “Questa è l’Italia del futuro, un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Frase che apre il brano e che calza alla perfezione con i nostri tempi. Ma che potrebbe suonare contraddittoria all’Ariston, il tempio della canzonetta, soprattutto dopo le polemiche che hanno accompagnato il varo di questa edizione.
«Quale posto più adatto dell’Ariston per dirlo?», contesta Willie Peyote. «No, non è contraddittorio, sarebbe come dire che non si può mai contestare dall’interno qualcosa e allora nessuno può partecipare se ha un’idea diversa da quella che porta avanti il pensiero dominante. Io credo invece che quello sia il gioco che ho cercato di fare. È un gioco per ribadire che non avrebbe un senso fare un Festival solo incentrato sulla musica senza ricordarsi che è un anno che viviamo in certe condizioni e che durante il Festival stesso ci sarà fuori una situazione che purtroppo non viene annullata dalla settimana santa di Sanremo, continueranno problemi che affrontiamo ormai da un anno. Non mi sembrava giusto andare al Festival facendo finta di niente. Già in precedenza avevo scritto una canzone sulla pandemia (La depressione è un periodo dell’anno, nda). Io le cose so farle così, non posso prescindere dalla realtà che mi circonda. Io scrivo partendo da fuori, non da me stesso».
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Il monologo di Boris non è l’unico punto di riferimento della canzone. «Mi sono ispirato un po’ anche a Ricky Gervais», confessa l’artista sabaudo. Ovvero il comico inglese che alla cerimonia dei Golden Globes se l’è presa con tutti, con battute al vetriolo alternate a pesanti accuse all’establishment hollywoodiano. «Il ruolo di Rocky Gervais in quel contesto fu esattamente quello di parlare dell’elefante nella stanza».
La canzone di Willie Peyote sembra il ritratto perfetto di questa edizione del Festival: “Nuovi punk vecchi adolescenti, tingo i capelli e sto al passo coi tempi / C’è il coatto che parla alla pancia ma l’intellettuale è più snob”. Un Sanremo che sembra arrivare in ritardo su “sta roba che 5 anni fa era già vecchia ora sembra avanguardia e la chiamano It-pop”.
«Evidentemente sì, perché la discografia italiana e il pubblico hanno dimostrato da anni che il gusto è cambiato: i primi in classifica sono gruppi che fino a qualche anno fa non erano presenti nelle classifiche generaliste ed il rap e l’indie, se vogliamo fare due macro-categorie, sono da tempo in cima alle classifiche e in rotazione nelle radio. Sì, il Festival arriva leggermente in ritardo, ma la battuta è rivolta alla discografia in generale». Ed è questa la paura di Willie Peyote: l’essere frainteso. Che è uno dei pegni che si paga al tritatutto sanremese. «Molti hanno letto quelle frasi come degli insulti ai miei colleghi», si lamenta. «Il punto delle battute che faccio nel pezzo non sono mai i miei colleghi, è sempre il pubblico e la percezione anche degli addetti al lavoro di quel che accade. Io non ce l’ho con i miei colleghi, ce l’ho su come il pubblico si pone nei confronti della musica e percepisce la musica. I miei colleghi fanno bene a fare quello che vogliono, perché ognuno deve essere libero di esprimere la propria arte. Io dico che non tutto deve essere sempre “intrattenimento”. Oggi avere un personaggio che funziona conta più che avere talento, avere il consenso è più essenziale che avere un programma, far parlare di sé è più importante che avere qualcosa da dire».
Mai dire mai (La locura) suona come una via di mezzo tra una gucciniana Avvelenata 3.0 e La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese. Nel mirino l’industria discografica, le Major, che ai talent-scout da tempo antepongono i talent show. «Io sono un vecchio, sono un boomer, come mi accusano spesso, e però ho avuto la fortuna di vivere in un contesto in cui era obbligatorio fare gavetta. Se io sono quello che sono oggi e sono sicuro di salire sul palco come quello dell’Ariston e dire quello che mi passa per la testa senza troppa paura è anche perché ne ho visti di palchi, ho preso gli schiaffi che dovevo prendere e sono un po’ più sicuro di me. Oggi vedo bruciare tanti ragazzi mandati allo sbaraglio. Io ho paura per loro, io accuso le Major. Come quando dico “le Major ti fanno un contratto se azzecchi il balletto e fai boom su Tik Tok”, non critico il social media, punto il dito contro le Major, perché il loro lavoro dovrebbe essere diverso: devono trovare i talenti e portarli alla luce del sole, non prendere la roba che già funziona e metterci un timbro sopra, perché così siam capaci tutti. Tik Tok è un mezzo e se qualcuno lo trova utile per diffondere il suo messaggio è sacrosanto che lo utilizzi».
Sanremo non è stata mai una sua ambizione e se quest’anno Willie Peyote fa parte del gioco è perché «l’Ariston è l’unico palco che suona in questa prima parte dell’anno. Altrimenti sarei in tour». Quel tour che ha dovuto sospendere un anno fa e che spera di riavviare quando sarà dato il semaforo verde ai concerti. Perché lui fa parte di quella consistente fetta di “giovani affamati”, precari della musica che vivono mangiando chilometri e palchi, costretti a digiunare dal lockdown. «È stato prediletto di mandare avanti la grande industria calcistica come quella televisiva, mentre gli aspetti più prettamente culturali o di condivisione che anche lo sport porta avanti non sono stati presi in considerazione. Io non lavoro da un anno, ho amici musicisti che sono dovuti andare a lavorare da Amazon o al Carrefour», contesta. «Mi ha stupito molto che il premier Draghi abbia confermato il confusionario Franceschini al ministero dello Spettacolo. Si parlava di un cambio di rotta totale, in realtà ha confermato Franceschini ed ha riesumato Brunetta. Secondo me, c’è gran confusione da parte di tutti. Le istituzioni navigano a vista, anche nella campagna vaccinale. È comprensibile che nel campo della cultura Franceschini abbia fatto confusione, l’hanno fatta tutti».
Il Festival, secondo il Peyote, avrebbe potuto davvero rappresentare la ripartenza. «Nel momento in cui le persone sono controllate all’ingresso, mascherinate, distanziate, io credo che il teatro non sia più pericoloso di un ristorante dove la bocca non ce l’hai coperta», sostiene. «Quello che mi dispiace è che non ci sia messi a un tavolo per studiare un modo per rendere il Festival l’effettivo laboratorio della ripartenza. Secondo me si possono riaprire i teatri».
Il combattivo “grillo parlante”, come si autodefinisce, nella serata di giovedì, quella dei duetti e delle cover, scenderà dalle barricate per parlare, anche lui, d’amore. Ma, ad alti livelli. Con Giudizi universali, canzone-capolavoro di Samuele Bersani che ha accettato di accompagnarlo sul palco. «È una delle mie preferite. Mi mette più in soggezione cantare con Samuele piuttosto che il Festival stesso», confessa il torinese, annunciando di aver lasciato il brano nella stesura originale, per rispetto dell’autore.