“Il direttore artistico è impazzito oppure ha bevuto”, canterebbe Francesco De Gregori sentendo Amadeus sostenere che «questo Festival è storico!». Segnali di una perdita di lucidità da parte di Ama erano già emersi in precedenza: quando aveva detto che «senza pubblico Sanremo non si può fare» e che «non farlo sarebbe stato un danno psicologico». Ieri, però, lo “swiffer delle polemiche”, come l’ha definito l’amico Fiorello, ha cominciato a spazientirsi a chi gli sventolava i deludenti dati sugli ascolti: «Il Festival è esattamente come lo volevo, esattamente così. Permettetemi di dirlo senza presunzione, è un Festival storico!».
“Il direttore artistico è impazzito oppure ha bevuto”, torna a riecheggiare in testa. Forse lo stress per il continuo calo degli ascolti, o le assillanti critiche alle sue scelte artistiche e per gli orari di chiusura della diretta tv, i nervi ieri sono saltati e il beato tra i balocchi ha alzato la voce: «Decidete voi quando devo far finire la diretta e io taglierò per accontentarvi», si è rivolto a muso duro alla sala stampa. «In ogni caso io non posso comunicarvi i vincitori prima di aver fatto ascoltare tutti i cantanti in gara. E ricordate che sono 26». Certo che lo sappiamo, ma è stato lui a portarli da 20 a 26, neanche Pippo Baudo. È stato lui (e la Rai) a volere, whatever it takes, ad ogni costo, questo Festival pandemico, con un cast «rivoluzionario». Che adesso gli viene contestato.
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Amadeus ha voluto strafare per fare una figura più bella di quella dello scorso anno. Sulla sua rotta ha però trovato l’iceberg Covid. Che era prevedibile e sul quale è andato a incagliarsi per inesperienza, faciloneria, superficialità. Difetti che il successo dello scorso anno aveva aiutato a nascondere, e che ora riemergono davanti alle difficoltà.
Amadeus è tornato a essere il soldatino mandato allo sbaraglio sul fronte della pandemia per evitare che la Rai perdesse il suo tesoretto. Soprattutto con tante teste traballanti alla vigilia di rese dei conti economiche e politiche. E, per fretta e avidità, la tv di Stato (e Amadeus) è caduta nello stesso errore fatto lo scorso autunno quando ha trasmesso il documentario su Chiara Ferragni (1 milione e 600mila euro d’incassi al botteghino), seguito da una intervista di Simona Ventura. Fu un flop clamoroso. Share bassissimo. L’insuccesso fu interpretato come la prova definitiva che il pubblico della Rai è fatto di vecchi.
Falso. L’errore della Rai è stato quello di raccontare la storia di Chiara Ferragni con strumenti e metodi tradizionali. Mettendola davanti a Simona Ventura, convinta di doverla spiegare come un’aliena, una ragazza favolosa, quando la influencer è semplicemente una ragazza che, per narrarsi, usa i mezzi del suo tempo meglio di tutti noi.
Stesso errore per Amadeus. «Dobbiamo capire che questo Festival inevitabilmente rappresenta una forte rottura», si è difeso ieri. «Quando ho parlato di “70+1” era questo il senso. In una situazione come questa, in un anno dove è cambiato il mondo, il Festival che stavamo pensando era un Festival che andava in una direzione di assoluto cambiamento, non di un timido cambiamento».
La sua rivoluzione è però una incompiuta. Amadeus ha voluto raccontare la nuova Italia musicale, quella dei cantautori indie e dei rapper, quella che fa record di visualizzazioni e stream, con strumenti e metodi tradizionali, anacronistici. È scaturita una narrazione distorta, fuori sincronia, sbiadita. In una struttura e in una ambientazione antica stride l’inserimento di oggetti di modernariato.
Per portare a termine questa “rivoluzione”, si dovrebbe avere il coraggio di cambiare formula. Alcuni spunti, tra l’altro, sono arrivati da questa edizione: le autonarrazioni di Elodie e di Achille Lauro con i loro quadretti potrebbero essere le basi da cui ripartire. Ecco, piuttosto che al Festival della ripartenza, si doveva pensare alla ripartenza del Festival.