Giancarlo Cauteruccio (regista, scenografo, autore teatrale) è tra gli artisti più innovativi del teatro italiano contemporaneo. Dopo una lunghissima attività svolta a Firenze è ritornato nella sua terra di origine: la Calabria. Lo abbiamo intervistato per i lettori di Pickline.
Giancarlo, come è stato il tuo rientro in Calabria?
«In noi migranti c’è sempre il desiderio ma anche la paura di tornare nella propria terra di origine. Sono arrivato a Firenze a diciannove anni, non solo per motivi di studio: volevo vivere questa città dove c’è stato per la prima volta l’incontro fra arte e scienza».
Come è avvenuto il tuo primo incontro con Firenze?
«Studiando la storia dell’arte dal libro di Argan, al liceo, a Cosenza. Sono stato così affascinato dalla sua analisi del Rinascimento che ho deciso di fare l’università (con il dispiacere dei miei genitori) non a Napoli ma a Firenze. Sarei potuto tornare in poche ore a casa, ma ho preferito diversamente. Nel 1974 non c’era ancora l’alta velocità e il viaggio da Firenze a Cosenza era molto lungo».
Come è nato il tuo interesse per il teatro?
«Giunto a Firenze ho capito che le mie prime esperienze pittoriche dovevano svilupparsi in altre direzioni: sentivo la necessità di confrontarmi con l’oggetto pittorico e lo spazio fisico. Già negli ultimi anni di liceo avevo cominciato a collegare i mei quadri attraverso dei fili con lo spazio in cui si inserivano. L’intuizione dello spazio mi ha portato a cogliere il rapporto con il corpo, e la relazione fra corpo e spazio mi ha consentito di avvicinarmi al teatro in maniera non tradizionale: per me il teatro si fonda appunto sull’incontro di diversi linguaggi».
Cosa rappresenta per te la tua terra di origine?
«In un meridionale resta forte dentro il legame con la ‘madre’ terra e con la lingua. Dopo un percorso lunghissimo basato sulle nuove tecnologie applicate alle arti sceniche ho ritrovato la mia lingua madre ‘congelata’, cioè conservata perfettamente. Da allora ho cominciato a usare il calabrese come lingua drammaturgica: l’ho portata per primo sulle scene a livello nazionale e ho fatto tradurre anche direttamente dall’inglese in calabrese Finale di partita di Beckett».
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Ciò ha cambiato il tuo rapporto con Firenze?
«No, per paradosso questa esperienza ha reso ancora più autentico il mio rapporto con Firenze e la mia arte: un artista solo se si fa straniero può entrare in relazione con una creatività più profonda».
Perché hai lasciato Firenze?
«Nella mia vita ho sempre legato i luoghi a un progetto. Vivere a Firenze è stato un progetto, non una casualità: Firenze era il mio progetto. Poi la città è cambiata, le persone sono cambiate, la politica è decaduta: il mio progetto si era esaurito, non avevo più alcun motivo per restare nella mia città di adozione, e ho deciso di lasciare Firenze per la Calabria, anche perché penso che la mia terra madre possa essere una terra di nuovi traguardi».
In che senso?
«La Toscana è terra di antica tradizione e prestigio; la Calabria ha invece grandi problematiche come tutto il Mezzogiorno d’Italia e come tutte le aree a sud del mondo. Nonostante ciò, ha mantenuto un forte legame con la natura. Stiamo attraversando un momento di crisi a causa del Covid. Credo che per questi territori possa essere un’occasione per ripartire dalla natura e dall’umano, senza rinunciare alle possibilità offerte dalle tecnologie, che possono essere messe al servizio del paesaggio».
Ciò significa un altro modo di fare teatro?
«Ho sempre pensato all’arte scenica come a un luogo magico, misterioso, a un luogo dello svelamento e della sorpresa; è giunto però il momento di parlare non più del teatro nel teatro ma di teatro dei luoghi, che dovranno riprendersi la loro funzione, e qui facciamo un salto all’indietro fino alle prime intuizioni del teatro greco: il teatro greco nasce come agorà cioè come luogo di condivisione della città, cioè la città si ritrova in un paesaggio, perché il teatro greco è un paesaggio, perché le cavee si aprono sempre sulla natura e non su una scena costruita».
I luoghi, come tu sostieni, possono entrare a fare parte del teatro. In che modo? Pensi a un progetto in particolare?
«In Calabria, subito dopo il mio rientro ho istituito Stretto Lab, un Laboratorio permanente dello Stretto, che coinvolgerà le nuove generazioni di Calabria e Sicilia e le istituzioni pubbliche per realizzare un ponte di luce sullo stretto, cioè un ponte immateriale, di tipo culturale, che possa raccontare il mito. Lo Stretto di Messina è unico al mondo e porta in sé un’appartenenza con il mito, dove particolari correnti e venti si incrociano. È un ponte simbolicamente sviluppato sul Mediterraneo e tutta la cultura mediterranea può convergere in questa idea, su questo ponte culturale, di idee, di progetto, forse contro un possibile ponte realmente costruito, che modificherebbe irrimediabilmente il paesaggio. Un ‘ponte di luce sullo stretto’ è un concetto che apre alle possibilità future che il Sud deve assolutamente riconquistare».
Perché proprio in questo momento?
«Il Covid ha determinato un punto zero: ci ha fatto comprendere che dobbiamo cambiare alcuni aspetti della nostra civiltà, che è basata sulla quantità e non sulla qualità. Nell’arte se tutto è finalizzato a uno scopo immediato si perde di vista l’umano e la qualità dell’esistenza. Questo discorso è valido anche per altri aspetti della realtà: stiamo attraversando un momento di passaggio dal vecchio al nuovo e il Mediterraneo può giocare il suo ruolo».
È il momento di ricostruire quindi?
«No, perché non credo nelle ricostruzioni, ma nelle costruzioni. Non credo nelle rinascite ma nelle nascite, quindi dobbiamo avere il coraggio di ‘nascere’».
Oltre a Stretto Lab hai altri progetti in cantiere?
«Quest’estate farò delle serate in alcuni luoghi della Calabria per i 700 anni dalla morte di Dante: leggerò dei frammenti della Divina Commedia in dialetto calabrese, che ho adattato alla mia parlata delle Serre Cosentine su un testo di Salvatore Scervini».
Perché questa scelta?
«Credo sia nata, mentre lavoravo a Firenze, dal bisogno di portare la mia lingua madre dentro Dante così come avevo già fatto con Beckett. Poi è anche il modo per ricordare un evento molto bello che si si è svolto molti anni alla New York University: feci leggere Dante in altre lingue e in dialetto calabrese. In sala c’era Edoardo Sanguineti, grande e fine studioso di Dante, che dopo la performance venne da me e mi disse queste parole: ’Non avevo mai sentito così forte la carnalità nella parola dantesca’. Diventammo amici, ci frequentavamo, andavo a fargli visita a Genova, ci vedevamo a Roma, doveva venire con me in Calabria per un festival, poi ci fu un problema di salute della moglie, e questa cosa saltò; poi lui è morto…».
Ritorno alla madre, non una rinascita ma una nascita…un nostos?
«Una nascita sì. Ritornare alla terra madre per me ha significato ritrovare valori che avevo quasi dimenticato: in questi primi mesi trascorsi in Calabria ho avuto la gioia di riassaporare colori, profumi, sapori, percezioni che avevo smarrito. L’esperienza si è ricomposta in un nutrimento nuovo, in una forza che pensavo di aver perso. Il nostos anche se doloroso è strepitoso!».